In piena recessione economica ci sarebbero da fare solo applausi e complimenti per la gestione finanziaria-amministrativa, nonchè etica, del progetto intrapreso da De Laurentiis al tavolo del curatore fallimentare, 5 anni orsono. Investimenti ponderati, rigido tetto agli ingaggi e scelte di mercato basate sulla crescita prospettica del patrimonio tecnico. Niente superstar griffate da svariate marche, nè tantomeno vecchie glorie alla ricerca di visibilità. Un progetto che forse stava andando un pò troppo oltre le aspettative, poi ridimensionate dalla sua stessa fragilità organica, evidentemente mediocre nella qualità dei giocatori e nella gestione tecnica i cui limiti sono stati enfatizzati dallo scarso materiale a disposizione.
Il tracollo di questo girone di ritorno ha dei motivi che partono da lontano.
L'elemento di partenza, da non dimenticare mai, è che il presidente ha iniziato quest'avventura con rigorosi intenti aziendali, nel legittimo diritto di voler fare impresa con la conseguente aspettativa di averne profitto. Ma anche con il chiaro obiettivo, in un arco temporale di qualche anno, di portare il club nell'elite del calcio europeo. Una promessa che ha accompagnato una scesa in campo priva però del necessario background calcistico. L'esperienza, frutto della passione, che diviene competenza, quella che ti permette di riconoscere una prima da una seconda punta, tanto per capirci. Evitando in tal modo i sorrisi sarcastici dei salotti televisivi e le imbarazzanti fughe in sala stampa.
Da qui, poi, la presunzione di cambiare le regole del gioco, di sovvertire meccanismi di un mondo che non è abituato a stravolgimenti repentini, ma ad una serie di rapporti legati a grandi interessi a cui ci si deve adeguare. Specie per chi è l'ultimo arrivato sulla giostra. La scelta, inizialmente vincente, di affidare tutta l'organizzazione societaria nelle mani di una sola persona, ha evidenziato le prime crepe quando si è trattato di fare sul serio: la massima serie impone infatti organigrammi complessi, in cui ogni settore, dal merchandising ai rapporti con i media, dal vivaio alla gestione degli equilibri della prima squadra, deve essere curato nei minimi particolari. Ma la serie A impone sopratutto un diverso tipo di mercato, purtroppo fatto di ciniche regole, di colpi bassi e di rilanci a suon di milioni per accaparrarsi i migliori sulla piazza. Un mercato che impone cifre diverse, lontane dai budget imposti dalla società. Investimenti di un certo rilievo per fare un certo tipo di calcio.
Proprio quel tipo di calcio che è stato promesso a questi tifosi, abituati a pretendere. Pronti finanche a fischiare chi della razza partenopea ha il sangue, ancor prima della maglia. A giusta ragione, essendo loro, i tifosi, i primi a pagare di tasca propria il prezzo - salato, tra paytv ed abbonamenti - di una passione che diventa vizio, dipendenza psicologica. Una fede però mutata nella sua stessa espressione e capacità critica, di pari passo con la globalizzazione che ha investito anche il calcio.
Una piazza competente che oggi pretende di vincere, nell'ottica di un gioco che sta cambiando pelle ed in cui ci sarà spazio solo per pochi. Pochi, ma con tante risorse, una stretta cerchia di club che molto presto si spartiranno le risorse della futura Superlega europea. Questa proprietà sarà in grado restare al passo? Oppure bisogna cominciare a pensare che un’anonimo campionato rappresenti il limite massimo per questa gestione? Le potenzialità di questo bacino d'utenza necessitano di una proprietà che sia in grado, da subito, di sedersi allo stesso tavolo da gioco insieme ai grandi gruppi industriali?
Da queste parti hanno tutti bisogno di risposte. Ma sopratutto di fatti. |di Marcello Mastice - Fonte: www.tuttonapoli.net| - articolo letto 162 volte