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2009-06-22

Zerocinquantuno intervista Franco Janich


Franco Janich nasce a Udine nel marzo del 1937, difensore, precisamente libero. Inizia la propria carriera nell'Atalanta dove resta due anni, poi il passaggio alla Lazio per un triennio. Nel 1961/62 l'arrivo in rossoblu dove resterà ben undici stagioni vincendo uno scudetto ed entrando nella storia rossoblu, prima di terminare la sua storia di giocatore alla Lucchese in serie C.

La sua carriera di calciatore si è contraddistinta in sole quattro squadre: Atalanta (2 anni), Lazio (3 anni), Bologna (11 anni) e Lucchese (1 anno). Che ricordi ha del suo passato da giocatore?

Ricordi belli, mi ritengo una persona estremamente fortunata. Chiesi a mio padre la possibilità di andare a giocare all’Atalanta, e lui me la concesse. Alla fine di un torneo presi il premio come miglior giocatore. Arrivai a costare cinque milioni. La Lazio mi voleva, ma disse di no perché costavo troppo. Poi ci arrivai grazie a Bernardini. Purtroppo retrocedemmo, anche se vincemmo la Coppa Italia. Io ero capitano. Poi Bernardini mi volle al Bologna.

Bologna, per forza di cose, è stata la tappa fondamentale della sua vita. Ci può raccontare qualche aneddoto particolare?

Devo ammettere che non ero un tipo facile da digerire, ero bello determinato. A livello societario c’era Dall’Ara che era un tipo molto attento ai soldi, e ogni volta era convinto di avermi pagato troppo. Io con lui non ho mai fatto contratti, mandava sempre Sansone, persona splendida, e Ugolini, ma alla fine ho comunque sempre trovato l’accordo per rimanere. Tranne l’ultimo anno. Prima di partire per una tournee in Russia mi dissero che sarei rimasto, poi mi diedero il benservito. A Bologna comunque sono stato bene, e sono rimasto in contatto con quasi tutti i miei ex compagni di squadra. E poi a Bologna sono nati tutti e due i miei figli. Ricordo anche un altro aneddoto particolare: con mio padre, all’epoca, si parlava solo di bestiame, perché lui era occupato in questo settore. E allora io per poter parlare con lui di animali andavo tutti i venerdì al mercato del bestiame a Bologna: ero lì alle 7 poi andavo all’allenamento. Poi c’era un bel gruppo. Ci vedevamo spesso, anche per mangiare insieme. E’ da certi momenti e da certe occasione di aggregazione, in cui si chiacchiera e si sta insieme, che si capisce se ci sono eventuali problemi o disagi. Ricordo che un anno Liguori aveva subìto un infortunio e io lo accompagnavo sempre a fare la rieducazione. Lo facevo per non lasciarlo solo: è nata una bella amicizia.

Ha sempre giocato in serie A, se si esclude l'ultimo anno prima di chiudere la carriera alla Lucchese in serie C. Ben 425 presenze nella massima serie, eppure mai una rete. Come mai?

Coerenza…. Comunque le mie presenze sono state 426 o 427, occorre contare anche gli spareggi. In ogni caso non avrò segnato, ma posso anche dire di non essere mai stati squalificato. Con gli arbitri bisogna avere i modi giusti. Per la gente se fa bene non è niente di speciale mentre se sbaglia è un cretino. La verità è che gli arbitri bisogna trattarli da persone normali, un giocatore ci deve parlare, confrontarsi. C’è un aneddoto che mi riguarda con Lo Bello padre, quello che io considero il vero Lo Bello. Durante una partita ad un certo punto mi disse: “Guardi che la caccio fuori”. La mia risposta fu: “Eh no, lei tutt’al più mi espelle, ma non dica che mi caccia fuori…”.

Nel 1963-64 lo scudetto con il grande Bologna di Bernardini. Che effetto le fa riviverlo oggi?

Beh, dopo tanti anni gli umori cambiano. A 27 anni è una cosa, a 72 un’altra. Sono comunque gioie importanti. Ho fatto un lavoro che per me era un divertimento, ho sempre fatto una cosa che mi è piaciuta.

Che rapporti ha oggi con il mondo del calcio?

Seguo ovviamente le partite, anche se devo confessare che non me la sento di andare allo stadio, dove comunque la partita è quella vera, si vive in tutt’altra maniera. Tra l’altro negli anni in cui ho fatto l’osservatore chiedevo di essere mandato a seguire gli allenamenti, non tanto le partite. Perché è dagli allenamenti che si vede il valore di un giocatore, si capisce il suo impegno e la sua professionalità.

Veniamo a questa stagione del Bologna. E’ vero che l’obiettivo dichiarato sin dall’inizio era quello della salvezza, ma si aspettava una sofferenza tale fino alla fine?

Sinceramente no, soprattutto dopo il mercato di riparazione non pensavo che il Bologna avrebbe faticato tanto. E’ andata bene, diciamo che ora l’anno difficile è già passato. 

A più voci si parla di rivoluzione, ma i tifosi non sono tranquilli per un mercato che ancora non è decollato.

Dove dovrà intervenire, secondo lei, il Bologna?

Di Vaio a parte, ci sono certi ruoli in cui è necessario a lavorare. Io ad esempio penso che un buon portiere valga tanto quanto un buon attaccante. Antonioli è senza dubbio un buon portiere, ma credo che quello sia un intervento da fare, una spesa che occorre sostenere. Nel caso, Antonioli potrebbe restare come secondo ed aiutare a crescere un giovane portiere. Poi per i progetti, non si tratta di inventarsi chissà che di particolare. Si tratta di fare le scelte giuste, spendere bene e divertire il pubblico. Al momento non vedo motivi per non avere fiducia nella famiglia Menarini.

Ci regala un ricordo di Giacomo Bulgarelli?

Lui mi chiamava ‘Il gatto’, io lo chiamavo ‘La furmiga’ perché era uno che lavorava. Oggi lo rivivo con un certo magone, ho dei ricordi affettivi e calcistici bellissimi. Ho giocato con lui per 11 anni, era una persona che lavorava e, come tutti i bolognesi anche divertente, godereccio, che sapeva sdrammatizzare.
|di Cinzia Saccomanni - Fonte: www.zerocinquantuno.it| - articolo letto 182 volte


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