Si accomoda all'uscita, Antonio Conte. Per l'ex bandiera juventina finisce così, dopo poco più di cento giorni, la prima avventura su una panchina della massima serie.
Dal 21 settembre 2009, data della sua presentazione, di conferenze stampa ne sono passate, ma le uscite di Conte resteranno a lungo nella memoria degli atalantini. «Quando sono in panchina divento un ultras», «Voglio vedere il sangue negli occhi», «Dobbiamo sollevare il campo», «Non mi prostituisco per la stampa», «Voglio far arrapare i tifosi», e via così. Qualcuno si domanderà: siamo ad Appiano Gentile, sta parlando Mourinho? No, è Zingonia e a parlare è Conte. E lo SpecialOne, perlomeno, simpatico o antipatico che sia, vince.
Frasi altisonanti, ma poco altisonante è la classifica, una graduatoria che vede la Dea sempre più sull'orlo del precipizio, con un equilibrio pressochè precario. Un altro scivolone e via, la B si avvicinerà sempre più.
Antonio il Colonello sembrava un osso duro: a parole ma anche nei fatti, con i suoi super-allenamenti. Non poteva poi mancare il fido sergente Giampiero "Hartman" Ventrone, con il suo Yo-Yo test (metodo rivoluzionario? No, secondo alcuni addirittura antiquato) e la musica di, ovviamente, Full Metal Jacket. Era fiducioso il nuovo preparatore atletico dei nerazzurri: «L'Atalanta? Una piccola Juve». Sì, ed infatti entrambe le squadre arrancano, lontante anni luce, pardon, punti, dai rispettivi obbiettivi. I numerosi infortuni di natura muscolare peraltro ci fanno venire alcuni dubbi circa l'effettiva validità: guarda caso contro il Napoli Manfredini è uscito per un guaio muscolare.
Fatto sta che Conte l'ultras, nel giro di breve tempo, è diventato nemico dello stesso popolo atalantino, contestato prima in amichevole, e poi di fatto esonerato a furor di popolo al termine dell'infausta sconfitta contro il Napoli. Io sarò giovane, ma credo che in più di 102 anni di storia nerazzurra nessuno si era permesso di zittire i tifosi dell'Atalanta. Una provocazione inaccettabile, che ha scatenato una risposta dura ma motivata. Il rapporto con i senatori dello spogliatoio, poi, si era inesorabilmente incrinato, e questi, accantonati neanche fossero scope da riporre negli sgabuzzini di Zingonia, si sono fatti sentire.
Talamonti, Pinto, Doni, protagonisti delle recenti vittorie firmate Delneri, ma ormai latitanti dal campo. Scelte apparentemente inspiegabili, soprattutto se chi va in campo (qualcuno ha detto Acquafresca o Bianco) non giustifica assolutamente queste esclusioni. Per risalire da questa situazione ci si dovrà affidare, al di là di ogni dettame tattico, soprattutto alla grinta, alla voglia dei leader. Solo con uno scossone emotivo, forse, si potrà salvare una stagione che sta andando a rotoli. Perchè fallire proprio quest'anno vuol dire perdere una valanga dei soldi che la permanenza in A garantirebbe (leggasi diritti TV).
No, l'Atalanta non si merita di fare la fine del Torino, tanto per fare l'esempio più lampante di come una politica societaria insensata porti al declino sportivo. Non se lo meritano, soprattutto, i tifosi. Le colpe, oltre che di Conte (che perlomeno si è dimesso, un gesto, almeno formalmente, di onestà), sono - e sono tante - nei piani alti del clan orobico. Scelte di mercato opinabili (basti pensare al cavallo di ritorno Donati, ora protagonista a Bari), scelte comunicative ancora più astruse, dirigenti che latitano tra le Orobie e gli Appennini bolognesi: perchè?
Bei tempi quando, quest'estate, si cantava «Oh Gregucci portaci in Europa». |di Luca Bozzanni - Fonte: www.atalantanews.com| - articolo letto 184 volte