Prandelli: ''Firenze seguimi È il momento di vincere''
Cesare Prandelli non ti basta mai. Ed ogni sua risposta ti fa venire voglia di un'altra domanda. Sono così rari i personaggi del calcio con cui parlare anche d'altro, a cui ti senti di dover chiedere altro, che una volta che ce li hai davanti, vorresti fermare l'orologio e ti piacerebbe che in una stanza quattro metri per quattro nella pancia dello stadio potessero entrare tutti i 40 mila che il Franchi può ospitare. Perché hai l'impressione nitida che ascoltare persone come Prandelli possa aiutare, inviti a riflettere, faccia sentir meglio: perché sanno far uscire parole serene, sagge, sincere. O, semplicemente, di buon senso. E quindi rarissime. Che il senso comune è diventato il meno comune dei sensi. E se, come canta Lucio Dalla, «la cosa eccezionale dammi retta è essere normale», allora Prandelli eccezionale lo è davvero. E con la sua piacevole normalità risponde senza mai nascondersi, a volte sorridendo, altre tornando serio, passando da un aneddoto a un'analisi, da un ricordo privato a un sogno per il futuro, seguendo sempre un percorso fatto di valori, equilibrio, umanità.
E così quando riguardi l'orologio e ti ritrovi a «stringere » e per dovere professionale torni a far rotolare domande solo sul pallone (anche se certe dichiarazioni sono musica per i tifosi...), ti sembra quasi uno spreco. Ma il tempo è tiranno, come le righe di queste pagine che non possono bastare a dire tutto. E nessuno lo sa quanto Cesare, che ha provato a un certo punto a dilatarlo il tempo, tentando disperatamente e inutilmente di fermare settimane che diventavano giorni, che si riducevano ad ore, che si asciugavano in minuti fino a sparire in istanti. Per lasciare solo il ricordo. Però se siamo davanti a lui con un taccuino in mano è perché guida una squadra diventata modello di comportamenti, in campo e fuori: la Fiorentina più bella, attrezzata, rispettata e affascinante dell'era Della Valle. E allora il nostro racconto non può che partire da qui.
Prandelli, che macchina è la Fiorentina?
«È una macchina che ha molti cavalli. Ora però bisogna metterla a punto e lanciarla in pista: ci sono tanti giocatori nuovi. Stiamo cercando velocemente quegli equilibri che ci hanno permesso in questi tre anni di produrre un buon calcio. Sono cambiati gli interpreti: abbiamo aumentato la qualità e la personalità, quindi è normale che si pretenda dalla squadra qualcosa in più».
La società ha speso tantissimo: contento della campagna acquisti?
«Sì, molto. La società ha speso tanto e ha speso bene acquistando giocatori giovani, di prospettiva, che seguivamo e volevamo fortemente. Ma ora dovremo metterli assieme: ci sono mentalità e culture diverse, non è così semplice. Però partiamo da una base solida, i "vecchi" hanno dato subito input importanti e i nuovi si stanno inserendo bene».
Manca ancora qualcosa? O qualcuno?
«No, ora non cerchiamo il pelo nell'uovo. Accontentiamoci, siamo soddisfatti».
Fino ad oggi si è sempre detto «Prandelli ha fatto il miracolo», ora si dice «deve sfruttare al massimo la rosa ampia». Una responsabilità nuova…
«Mi aspetta un'annata affascinante. Per la prima volta ho a disposizione davvero una rosa competitiva. Avere due giocatori per ruolo è fondamentale se vogliamo andare avanti in tutte e tre le competizioni. Non ci saranno giocatori scontenti: chi non giocherà la domenica lo farà magari il mercoledì. Dovremo essere intelligenti, il mio scopo è di coinvolgere tutti».
Lo scorso anno la contemporanea assenza di Montolivo, Mutu e Gamberini, avrebbe scavato fosse di depressione. Oggi i tifosi non si spaventano.
«Un bel passo in avanti. L'idea era proprio questa: mettere in competizione giocatori importanti, affinché anche i "big" fossero stimolati da un compagno che cerca di rubargli il posto. Ogni settimana ci sarà l'imbarazzo della scelta. Sono situazioni che ogni allenatore vorrebbe vivere».
Non metta le mani avanti, la Champions è a un passo.
«E invece io sono molto più preoccupato per la partita di ritorno con lo Slavia che per quella con la Juve. Tutti danno per scontato il passaggio del turno. Non è così, e se andiamo a Praga con quest'idea rischiamo una brutta sorpresa. Ricordiamoci l'Everton: in casa facemmo un'ottima partita, poi al ritorno soffrimmo le pene dell'inferno...».
Dopo lo Slavia arriva la Juventus: quanto è importante battere una diretta avversaria e far crescere subito nel gruppo la convinzione dei propri mezzi?
«Moltissimo. Se passiamo bene il preliminare sono convinto che faremo una grande partita contro la Juve, anche se si sono rinforzati e hanno una squadra solida. Questa è la partita dei tifosi, la partita dell'anno. Non vogliamo deluderli».
Il gap con le quattro grandi è stato colmato?
«L'ho già detto: Inter, Roma, Milan e Juve lotteranno per lo scudetto. Noi siamo a ridosso.
L'importante però era dare un segnale importante a tutti. E la società l'ha dato».
C'è qualcosa che invidia alle altre grandi?
«Posso invidiare solo l'esperienza dei club e dei giocatori a certi livelli, la personalità di chi ha già giocato tantissime partite sotto pressione. Noi siamo convinti di fare più che bene, ma avere una struttura e un ambiente preparato a certe competizioni è un vantaggio».
Teme la famosa difficoltà psicofisica a sostenere il doppio impegno Champions-campionato?
«Sì. Basta vedere gli almanacchi: se le nostre squadre da anni non centrano la doppietta (l'ultima fu il Milan di Capello nel 1994, ndr), un motivo ci sarà. Tutti gli allenatori che hanno avuto esperienze in Champions dicono che brucia davvero tante energie».
Un'altra abitudine «da grande» che forse ancora manca è vincere qualche scontro diretto in più: lo scorso anno il colpaccio riuscì solo con la Juve…
«Su questo sono meno d'accordo. Per quanto riguarda l'atteggiamento contro le grandi siamo migliorati molto e in questi tre anni abbiamo fatto ottime prestazioni. Se poi arriva la vittoria è chiaro che cresce l'autostima. Ma noi, posso prometterlo, andremo su tutti i campi in casa e fuori con la voglia di fare la partita e di vincerla. Su questo non ho il minimo dubbio».
Donadel ha detto: «Va bene il fair play ma chi viene qui deve aver paura. Fuori i muscoli ».
«Non è un problema di muscoli ma di mentalità, di attenzione, di saper essere una squadra equilibrata nelle due fasi di gioco (attacco e difesa, possesso e non possesso palla). Essere aggressivi non vuole dire avere muscoli, ma possedere i tempi di gioco, del pressing, dei tackles. Ho visto vincere contrasti da giocatori di 60 chili contro bestioni di 90. Tempi giusti e voglia della palla: quello fa la differenza, non i muscoli». |Rassegna Stampa - estratto da articolo di Andrea Di Caro - Corriere Fiorentino| - articolo letto 152 volte