Una chiacchierata genuina, spontanea, vera. Come l’indole di Pantaleo Corvino da Vernole, direttore sportivo vecchio stampo, di quelli abituati a confrontarsi con il cinismo dei numeri. Un lungo viaggio che parte dalla Terza Categoria e arriva fino alla Champions League, intrecciandosi con il destino di tante luminose carriere della pedata planetaria. Un onesto credo lavorativo in antitesi con le tendenze del calcio 2.0: all’eco mediatico è preferibile il segno più alla voce bilancio. Occorrono intuizione e delle belle spalle larghe, perché il pallone non è una scienza esatta. Il lavoro, alla lunga, paga. È stato così a Casarano, a Lecce e a Firenze, gli attestati di stima fortunatamente non conoscono bandiere. Una passione per l’arte moderna e il razionale desiderio di carpirne l’essenza nelle tappe di una professione che ridimensiona il tempo per tutto il resto. Oneri ed onori, come spesso accade, la ricerca dell’equilibrio corre parallela alla vulcanica interpretazione di quello che solo per comodità è chiamato gioco. Dieci mesi di Bologna che sembrano già una vita per intensità e vicissitudini, lui, il Pantaleo, non si scompone guardando dalla finestra del suo ufficio il manto erboso di Casteldebole.
Direttore, qual è stato il suo primo pensiero sabato sera al fischio finale, dopo la bella vittoria del Bologna a Verona, la seconda consecutiva?
«Non un pensiero ma due: uno prima della gara, mi sono seduto nello stesso posto in cui mia mamma ha assistito alla sua ultima partita, un Verona-Fiorentina decisivo per la qualificazione in Champions, che riuscimmo a centrare. Il secondo, invece, è arrivato dopo la vittoria: ho realizzato che anche con i vari Destro, del ‘91, Rizzo, del ‘92, Masina, del ‘94, Donsah, del ‘96, e Diawara, del ‘97, si possono raggiungere obiettivi importanti».
Prima una promozione faticosa, poi un avvio di stagione piuttosto complicato in Serie A: sinceramente, si aspettava tutta questa sofferenza quando è arrivato qui? «Nello scorso campionato il Bologna è partito senza i riflettori puntati addosso, la promozione non era un obbligo, poi con la nuova proprietà lo scenario si è capovolto. Non è soltanto un discorso di mercato, a gennaio ad esempio abbiamo effettuato dodici operazioni in uscita, alle quali ne sono seguite altre ventuno in estate, ma anche e soprattutto un cambiamento nel modo di ragionare: creare una mentalità vincente nel gruppo della squadra e di lavoro. Tutti insieme ci siamo riusciti, siamo saliti di categoria, e a quel punto ci siamo trovati a dover ricostruire una squadra quasi da zero, perché gli unici titolari rimasti dalla B erano Masina e Oikonomou (Gastaldello era infortunato da tempo, ndr), due ragazzi che la Serie A non l’avevano mai fatta. In quel momento le possibilità erano due…».
Quali?
«Prendere la strada più semplice, quella dei nomi già conosciuti e acclamati, magari anche a parametro zero, ma considerati ‘vuoti a perdere’ in proiezione futura, una scelta che almeno inizialmente ci avrebbe messo al riparo da critiche e scetticismo. Oppure scegliere la seconda strada, quella più rischiosa, fatta di potenzialità non troppo conosciute, con un mix di esperienza. Entrambe potevano presentare dei rischi, e allora mi sono detto: se mai dovrò cadere voglio farlo seguendo la mia filosofia, con la certezza di cadere comunque in piedi. È chiaro che, in questo modo, tutto in avvio diventa più difficile, soprattutto quando ti trovi a confrontarti con realtà ormai consolidate da anni che possono permettersi di aggiungere solo qualche tassello ad un’ossatura già formata, mentre tu sei arrivato per ultimo e hai dovuto fare tutto in sessanta giorni».
Considerando che ha sempre difeso a spada tratta il suo lavoro e creduto nel valore della rosa, perché non ha deciso di cambiare prima l’allenatore? Sappiamo che ritiene l’esonero una soluzione estrema, ma in questo caso ha finito con l’attirare su di sé gran parte delle critiche…
«Tra sei gare raggiungerò le cinquecento partite da dirigente in Serie A, senza contare tutte quelle nelle altre categorie. Non c’è in me la vocazione per gli esoneri, mi è successo in tutto quattro volte, di cui due negli ultimi dieci mesi qui a Bologna: ogni volta che mi capita mi dispiace molto, perché mi sembra giusto arrivare sempre a fine stagione. A quel punto, a bocce ferme, se un club non è contento del lavoro del proprio tecnico ne può scegliere un altro tra tutto il meglio che c’è in circolazione».
E riguardo alle critiche?
«Sono qui da ormai dieci mesi e quasi ogni giorno il mio unico tragitto è stato quello casa-bottega, penso costantemente al mio lavoro e cerco di svolgerlo al meglio. Per questo le critiche le avverto poco, anche perché fanno parte del gioco e vanno messe in conto, così come gli errori, specialmente quando si fanno tante cose».
Lo scorso 23 giugno Amadou Diawara è diventato ufficialmente un giocatore del Bologna: prendendolo come simbolo del suo modo di vedere il calcio e di fare mercato, quanto è orgoglioso ogni volta che lo vede giocare con quella personalità, ad appena diciott’anni?
«Da un lato sono molto orgoglioso, dall’altro penso che lui e tutta questa ‘banda’ di ragazzi (sorride, ndr) non solo stanno facendo bene nel presente, ma stanno anche costruendo il futuro di questa società. Mi viene da ridere quando sento dire che Amadou gioca in modo scolastico, io faccio parte del club “La qualità non ha età”: lui gioca semplice, e nel calcio giocare semplice è la cosa più difficile, non tutti sono in grado di farlo. Comunque, in generale, ci tengo a precisare una cosa…».
Prego…
«Io ho sempre visto il calcio come un’azienda e ho spesso cercato di lavorare sulle potenzialità per il futuro, ma non solo, varie volte mi sono affidato a qualità conclamate. A Casarano ho lanciato Miccoli ma prima avevo preso Francioso, a Lecce ho portato i vari Vucinic, Pellè e Bojinov ma in attacco c’era anche un certo Cristiano Lucarelli, a centrocampo Lima e tra i pali Chimenti. A Firenze tutti si ricordano di Babacar, Bernardeschi, Jovetic, Ljajic e Nastasic, ma altri acquisti fondamentali sono stati Toni, Frey e Mutu. Lo stesso a Bologna, abbiamo tanti giovani ma anche giocatori come Mirante, che per me è un portiere da Nazionale, Gastaldello, Giaccherini e Brienza».
Tornando sul discorso legato all’allenatore, tutta la dirigenza del club si è subito trovata d’accordo sul nome di Roberto Donadoni o ce n’erano anche altri in ballo, come ad esempio Francesco Guidolin?
«Non c’è stato il minimo dubbio da parte di nessuno, perché le qualità e i risultati ottenuti in carriera di Donadoni erano sotto gli occhi di tutti, rispondeva al nostro profilo è stata una scelta condivisa».
Quanti e quali sono stati i meriti del nuovo tecnico fino a questo momento? Un paio di accorgimenti tattici, ad esempio, stanno già dando ottimi risultati…
«Ogni allenatore che subentra in corsa prova ovviamente a mettere qualcosa di suo sulla base che eredita dal suo predecessore, cercando un passo alla volta di trasferire ai giocatori la sua idea di calcio. Le sue mosse tattiche fin qui hanno pagato, ma credo che Donadoni sia stato bravo innanzitutto a tenere alto il livello di serenità dello spogliatoio, una cosa non facile nei periodi in cui i risultati non arrivano».
A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca: qualche giocatore non stava più dando il 100% negli ultimi tempi? Rossi aveva ancora in mano la situazione o ci sono stati dei problemi? La squadra non ha mai giocato davvero male, ma la grinta e la compattezza mostrate nelle ultime due uscite non si erano mai viste prima…
«Tra Delio Rossi e la squadra non c’è mai stato alcun problema, questo è un gruppo sano che ha sempre dato il massimo, sia in allenamento che in partita, posso metterci la mano sul fuoco».
Chi contesta la sua campagna acquisti punta il dito soprattutto sulla corsia di destra in difesa, dove fin qui il rendimento migliore è stato garantito da Rossettini, centrale adattato: sente di doversi rimproverare qualcosa a tal proposito?
«No, perché al giorno d’oggi per acquistare dei terzini forti e già affermati servono tanti soldi, sono merce rara e chi li ha o se li tiene o chiede cifre altissime. Per questo ho scelto di puntare su dei giovani come Krafth, Ferrari e Mbaye, con Masina a sinistra, tutti nazionali Under 21 con un ottimo potenziale, nella speranza di ritrovarci presto ad avere già in casa giocatori di livello in questo ruolo».
Ibrahima Mbaye e Lorenzo Crisetig, il primo non ha mai convinto a pieno ed è uscito dai radar, il secondo è già stato bollato come oggetto misterioso: qual è il suo parere su questi due ragazzi?
«Mi arrabbio un po’ quando sento parlare di oggetti misteriosi, come se avessimo acquistato degli sconosciuti qualsiasi. Crisetig è un ottimo centrocampista, è stato nazionale Under 21, e se ora non sta giocando è solo perché è esploso un altro ragazzo, Diawara, che sta dando continuità alle sue prestazioni. Non vedo suoi demeriti, semplicemente si è creata una concorrenza tra due grandi potenziali, ma questo non toglie nulla al valore del giocatore. Riguardo a Mbaye posso dire che quando è stato chiamato in causa quest’anno non ha certo fatto danni, anzi, un tempo in casa con il Sassuolo terminato 0-0 e uno a Modena con il Carpi, dove abbiamo vinto. Anche da lui mi aspetto molto perché ha tutte le qualità per costruirsi una carriera importante».
Mercato di riparazione: Niang, Guerrero e Ramirez sono possibilità concrete?
«Al momento sono solo tre nomi che non posso né confermare né smentire, e so già che da qui a gennaio ne usciranno tantissimi altri, come accade sempre».
Si è già fatto un’idea di come intervenire sulla squadra nel mese di gennaio?
«Il gruppo attuale è molto ampio e abbiamo anche dei ragazzi fuori dalla lista ufficiale, per questo il primo obiettivo sarà quello di riequilibrare un po’ l’organico. Per il resto si vedrà, decideremo insieme all’allenatore e alla proprietà dopo aver fatto le opportune valutazioni tecniche, tattiche ed economiche».
Che tipo di presidente è Joey Saputo? Vuole essere costantemente relazionato su tutto o lascia un buon margine di manovra a lei e agli altri dirigenti?
«Il gruppo di lavoro formato da me, Claudio Fenucci e Marco Di Vaio è unito, ognuno ha chiaramente delle competenze e delle responsabilità specifiche ma le decisioni vengono sempre condivise con tutti. Saputo non ci mette pressione e ci consente di operare in modo sereno, ma è chiaro che i suoi input e la sua supervisione stanno sopra ogni altra cosa. È una persona che non vorrei mai deludere».
Il calcio, lo sappiamo, sta attraversando una profonda fase di cambiamento: cosa succederà in futuro, quando non ci saranno più dirigenti vecchio stampo come lei e il suo amico Rino Foschi?
«Lo scenario futuro inizia già a intravedersi, e non è dei migliori. In passato quasi tutti i presidenti gestivano la propria società di calcio come la propria azienda di famiglia, mettendo l’uomo giusto al posto giusto, ora invece la situazione sta cambiando, alcuni pensano di poter fare tutto da soli, o in altri casi si affidano a figure inesperte o poco competenti in materia. In Inghilterra, ad esempio, tutto era finito nelle mani degli allenatori-manager, e infatti i club di Premier si sono ritrovati con i conti pesantemente in rosso. Poi forse si sono resi conto che qualcosa non andava, e guarda caso hanno iniziato ad affidarsi con più frequenza a tecnici e dirigenti esperti, tra cui molti italiani…».
Il suo desiderio è quello di restare anche oltre i tre anni e mezzo di contratto che ha sottoscritto, magari per provare a ripetere gli ottimi risultati ottenuti con la Fiorentina?
«Sono stato chiamato da Joey Saputo e ho appunto sottoscritto un contratto di tre anni e mezzo per avviare un progetto tecnico secondo le mie competenze e la mia esperienza. Il primo obiettivo era quello di riportare la squadra in Serie A e lo abbiamo raggiunto il 9 giugno scorso. Il secondo è la permanenza nella categoria e ad oggi saremmo salvi. Sono convinto che non abbiamo ancora fatto niente, che non dobbiamo mollare e che tra alti e bassi ci sarà da soffrire, ma anche che questo gruppo abbia tutti i mezzi per farcela. Più in generale, il mio compito è anche quello di tracciare e applicare le linee guida per creare risorse tecniche ed economiche sia per la prima squadra che per il settore giovanile. Questi sono gli obiettivi da raggiungere nell’arco del mio contratto».
A Bologna si trova bene? In che zona abita? Nel poco tempo libero a sua disposizione è riuscito a godersi un po’ la città?
«Abito in zona Mazzini. Spero vivamente di potermi godere a pieno Bologna finora purtroppo ci sono riuscito poco, proprio come nei sette anni a Firenze. Ho tre passioni: l’arte, il mare e gli ulivi. Dal momento che a Bologna gli ulivi e il mare non ci sono, mi resta l’arte. L’altro giorno per la prima volta, approfittando della sosta di campionato, mi sono imposto di uscire prima da Casteldebole e sono andato a fare un giro al Mambo (il Museo d’Arte Moderna di Bologna, ndr): mi è piaciuto molto e spero sia solo il primo di tanti altri splendidi posti che potrò visitare».
Per concludere, un messaggio ai tifosi rossoblù, a chi l’ha sempre apprezzata e anche a chi l’ha attaccata, e magari ora si sta ricredendo…
«Dico la verità, dal punto di vista della pressione e dello scetticismo Bologna non è diversa da altre piazze, non c’è nulla a cui non fossi già abituato, anzi, qui si riesce a lavorare bene. Quando a settembre abbiamo giocato a Firenze sono stato accolto da un bellissimo striscione, un omaggio dei tifosi viola per farmi sapere che non mi avevano mai dimenticato, e lo stesso mi era successo a Casarano e a Lecce. Ecco, spero con tutto il cuore che un giorno anche i tifosi rossoblù mi ricorderanno con lo stesso piacere, vorrà dire che sarò stato capace di farmi apprezzare come dirigente ma soprattutto come persona».
[Simone Minghinelli – Fonte: www.zerocinquantuno.it]