Bonucci: “Sono la pecora bianconera di una famiglia interista”

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A volte Gigi Del Neri vorrebbe strangolarlo, confessa sorridendo, per quei colpi di tacco e sombreri che Leonardo Bonucci esegue sull’ultima trincea. Un po’ naif, direbbe Mourinho. Questione di numeri, anche: quelli ispirati dal talento, perché sa farsi perdonare con lanci e gol, e quelli veri, ad esempio il 19 stampato dietro la maglia, in osservanza della numerologia alla quale l’ha avviato Alberto, il suo motivatore personale.

Di seguito, l’intera intervista a Leo.

Leonardo Bonucci quando le è cambiata la vita?

«Un anno fa, quando sono andato a Bari: è cominciata l’ascesa al calcio che conta. Spero di continuare a salire questa scala con la Juve».

Lei e la difesa siete finiti sotto accusa.
«È stato un momento di difficoltà: a Udine abbiamo dimostrato che con l’applicazione e la cattiveria possiamo affrontare chiunque».

Come l’è venuta l’idea del sombrero a Floro Flores?
«Mi vengono spontanee, non ci sto tanto a pensare. Come il tacco che ho fatto poco dopo: se poteva, il mister mi veniva a strangolare. Purtroppo, o per fortuna, è una caratteristica che ho, ma che devo cercare di limitare».

Disinvolto da sempre?
«Sì, anche quando ero in Primavera. Mi piaceva saltare un avversario con una finta: con Ventura la tendenza è aumentate perché non buttavamo mai via una palla».

Nella ripresa di Udine qualcuna l’ha spedita via.
(sorride) «Del Neri non mi ha detto nulla, però, un po’ per la stanchezza, un po’ per la volontà di cambiare e invertire la rotta dell’istinto, ho sparato due palloni in tribuna».

Ventura e Del Neri, stessa targa, il 4-4-2: ma ai comandi quant’è diverso?
«A Bari eravamo abituati ad aspettare l’uomo dentro l’area: Del Neri vuole che il centrale dalla parte della palla accorci, mentre la porta se la dividono l’altro centrale, il terzino e l’esterno».

Pensa mai di essere stato il più pagato?
«Sono il più costoso, ma anche il più giovane. Spero di dimostrarmi all’altezza».

In alto c’è: se l’aspettava?
«Fino a 19-20 anni non ero nessuno: non me l’aspettavo, ma l’ho sempre sognato. Sono uno di quelli che fin da piccolo voleva fare il calciatore: pallone 18 ore su 24, da quando avevo 5 anni. Capitava che mi buttavo nelle partitelle di mio fratello, Riccardo, che ha quattro anni più di me. Una volta mi sono rotto il mignolo: ero il più piccolo e mi avevano messo in porta».

Juventino.
«Tutti tifavano Inter: ero la pecora bianconera della casa».

In principio fu centrocampista.
«Dietro ho iniziato a 17 anni, prima giocavo davanti alla difesa: mi piaceva impostare il gioco, fare il lancio, la bella giocata. Poi, alla Viterbese, Carlo Perrone mi disse: ?Se vuoi diventare qualcuno devi giocare difensore centrale?. Ero titubante, ma aveva ragione».

Il fisico l’ha sempre avuto?
«Dai sette-otto anni ero sempre il più alto. E un anno ho perso quattro, cinque mesi per il morbo di Osgoog-Schlatter (sindrome ossea per la crescita, ndr): mi svegliavo la notte per il male alle ginocchia».

Dopo i fallimenti di Treviso e Pisa si è mai detto: smetto.
«Ancora sto aspettando gli stipendi. Andai a Bari e pensai: ?Se retrocedo anche stavolta, meglio smettere di giocare?».

Per aspera ad astra: tatuaggio non a caso.
«Attraverso le difficoltà fino alle stelle: me lo sono fatto a Treviso, quando andavo in tribuna ogni partita».

Altri marchi?
«Le iniziali dei miei genitori, Claudio e Dorita, e di mio fratello. Dietro al collo, ?Per gioco o per destino. Unforgettable?. Una frase che mi sono fatto con Martina, la mia fidanzata: la mia ascesa è cominciata con la convivenza con lei».

Per questo prima delle partite le manda sempre un sms?
«Per farle capire che ci sono anche se sono da un’altra parte del mondo».

La sua colonna sonora?
«Non sento musica prima delle partite, mi concentro da solo. Anzi, se mi vedete scendere dal pullman con le cuffie vuol dire che non gioco».

I suoi modelli?
«Nesta per l’eleganza con la quale va su ogni palla, Cannavaro per cattiveria, decisione e senso dell’anticipo».

L’avversario più forte?
«Finora, Milito».

Si riguarda in tv?
«Ogni tanto sì, soprattutto quando sono andato male. Vado a vedere dove ho sbagliato e m’incavolo con me stesso, anche se a bocce ferme è più facile sapere cosa fare».

Perché ha scelto il 19?
«L’ho preso a Bari: per la numerologia, è il mio numero. Merito di Alberto, il motivatore conosciuto a Treviso e che in passato ha seguito Toldo: mi ha indirizzato sul canale della convinzione, della cattiveria, dell’autostima e della positività».

Troppa positività se dice che vi prendete lo scudetto?
«Pensiamo a vincere ogni partita poi tiriamo le somme: sennò creiamo solo illusioni».

Immagini il suo futuro.
«Spero di essere un punto fermo della Juve e migliore di quello che sono oggi».

[Massimiliano Nerozzi – Fonte: www.nerosubiancoweb.com]