L’appuntamento con Tiziano De Patre è alle 12 e lui arriva puntualissimo, anzi, in anticipo di 5 minuti.
Riconoscerlo non è difficile, è praticamente identico a quando, nell’estate del 2000, lasciò Cagliari dopo una retrocessione in serie B. Stessi occhi chiari, stesse movenze, semplice e schietto come allora. Non ha perso nemmeno il vizio del gol, anche adesso che allena la Primavera del Parma: «Ieri ho giocato coi ragazzi e ho segnato di destro in acrobazia», niente male per un mancino naturale.
Spiegaci cosa è successo sabato in Parma-Bologna, campionato primavera. Un giocatore loro è a terra, l’allenatore chiede a Finocchio di buttare la palla fuori chiamandolo per nome e l’arbitro lo caccia.
«Non è andata così, hanno montato un caso. L’allenatore del Bologna ha iniziato a protestare e fare casino. Non è vero che l’ha chiamato Finocchio, ha solo fatto un casino. Abbiamo litigato e l’arbitro ci ha cacciati entrambi, poi per giustificarsi si è inventato questa storia. È un tipo così, lo conoscono in tanti. Anni fa quando allenavamo entrambi gli allievi venne espulso e poi si piazzò dietro la mia panchina a urlarmi di tutto».
Sarebbe stato un episodio divertente se fosse andata come dice lui. Nei tre anni a Cagliari è mai capitato qualcosa di così strano?
«No, assolutamente, a questi livelli no, era un calcio più adulto. Si scherzava tanto, Muzzi e Cavezzi in particolare facevano tanti scherzi. Tagliavano i calzini a tutti e quando li infilavamo ci uscivano le dita dei piedi. Era un bell’ambiente, un bel gruppo».
La parola gruppo tornerà tante volte nelle risposte di De Patre, segno evidente di un ragazzo che ha studiato alla scuola di Giampiero Ventura.
Quelli della Gaggetta ti presero in giro per l’esultanza al tuo quinto gol in serie A, ricordi?
«Sì, ricordo. Dissero che avevo imparato a contare fino a cinque (ride). Era un bel calcio, si prendeva bene tutto. Adesso forse è cambiato, c’è un po’ più di esasperazione sotto tutti i punti di vista. Noi stavamo bene e vivevamo bene tutti i momenti, senza fare mai drammi, e l’ambiente era quello giusto per poter superare i periodi meno facili».
I tuoi primi due anni a Cagliari sono stati fantastici. Prima la promozione e poi una salvezza bellissima. Cosa ti rimane?
«Sono stati anni bellissimi. Sono stato benissimo, io e la mia famiglia, ma d’altra parte faccio fatica a sentire qualcuno che a Cagliari si trovi male. Poi le cose sono andate bene dal punto di vista calcistico, ho solo bei ricordi».
Chi è stato il compagno di squadra che ti ha impressionato maggiormente per le qualità calcistiche?
«Ce n’era uno che aveva non qualcosa, ma tanto in più degli altri: Fabian O’Neill. Ha buttato via una carriera importantissima per motivi che non dipendevano certo dalle sue qualità, aveva caratteristiche fisiche e tecniche straordinarie, ed era anche un bravo ragazzo. Poteva diventare un top player».
E Patrick Mboma?
«Un giocatore particolare, di cui non ho un gran bel ricordo, anche come persona. Come calciatore non era costante, giocava solo nelle partite importanti e pensava un po’ troppo per se stesso. Faccio fatica a dire cavolate, io la penso così».
Grande sinistro, buon colpo di testa, capacità di inserimento e interdizione. Sei stato un centrocampista straordinariamente completo. Hai la sensazione di aver avuto una carriera al di sotto delle tue possibilità?
«Ne sono convinto. Un po’ per colpa degli infortuni e un po’ per colpa di scelte mie. A 17 anni mi aveva preso la Juve ma mi spaccai il ginocchio e restai fermo un anno. A 20 anni ero in serie A con l’Atalanta, ma volevo giocare titolare e tornai in C. Quello fu un mio errore, perché a Bergamo per i giovani c’era l’ambiente giusto per emergere. Ho perso dei treni importanti, ma quando stavo bene, anche nel periodo di Cagliari, vedevo che potevo competere coi migliori nel mio ruolo e sono andato vicino a qualche grossa squadra. Ma ormai andavo verso i 30 e tutto era più difficile».
C’è qualche giocatore in questo Cagliari che ti assomiglia?
«Sicuramente Nainggolan, che conosco dai tempi di Piacenza. Anche lo stesso Biondini, che magari non ha il mio tiro, e Lazzari, che è più offensivo. Io ero una mezzala e il Cagliari gioca con le mezzali. Mi piacciono i suoi centrocampisti».
Avresti meritato la nazionale, ma all’epoca era difficile arrivarci col Cagliari. Oggi è diverso.
«C’è più attenzione alle piccole squadre anche perché nelle grandi gli italiani hanno sempre meno spazio. Io all’epoca potevo starci se avessero fatto le scelte che stanno facendo adesso».
Due anni bellissimi con Ventura e poi? Cosa è successo?
«L’esonero di Tabarez, un grandissimo allenatore, fu probabilmente un errore, ma il vero problema è che non si è creato lo stesso gruppo degli anni precedenti, molti non si allenavano bene e pensavano a se stessi, non al bene della squadra».
Muzzi, Vasari e Ventura. Quanto pesò il loro addio?
«Probabilmente si era chiuso un ciclo, ma Vasari e Muzzi facevano la differenza in campo e nello spogliatoio. Il tecnico era un tecnico preparato, secondo me uno dei più bravi in Italia e lo dimostra quanto ha fatto a Bari».
Quell’anno arrivarono a Cagliari David Suazo e Daniele Conti. Si capiva che avrebbero fatto quella carriera?
«Sì, sì, sicuramente. David era un ragazzino acerbo, ma intravedevi le qualità giuste per eccellere. Sapevamo che sia per lui che per Daniele ci voleva del tempo, ma si intuiva il potenziale. David è poi andato all’Inter, Daniele ha scelto di restare a Cagliari. Se avesse giocato con qualche altra squadra probabilmente avrebbe trovato spazio in nazionale, ma io condivido la sua scelta».
A Cagliari hai conosciuto giocatori su cui si potrebbero scrivere dei libri. Hai parlato di Fabian O’Neill, e anche Fabio Macellari ha visto la sua carriera bloccata dai vizi. Dario Silva e Jason Mayele invece in comune hanno un incidente d’auto. Il primo ha perso l’uso delle gambe, Mayele invece è morto. Che ricordi hai?
«Quando senti notizie come quelle è difficile crederci. Pensi che fino a pochi anni prima li vedevi tutti i giorni e non ti sembra possibile. Dario lo ricordo come un ragazzo positivo, tanta voglia di fare in campo e in allenamento, di lui ho un ottimo ricordo, come di tutti gli uruguaiani. Anche Jason era un bravissimo ragazzo, si impegnava meno, non era un grande professionista, ma era un ragazzo solare».
Un libro sarebbe bello scriverlo anche su David Nyathi, il problema è riuscire a trovarlo. Che persona era? Perché nessuno è riuscito mai a capirlo.
«Neanche noi, non è riuscito mai a integrarsi. Non parlava l’italiano, era molto introverso, ma alla fine penso stesse bene con noi. Poi però è sparito, nemmeno noi sappiamo che fine abbia fatto».
Il calcio italiano ha un grosso problema coi giovani. È una questione di fiducia o il settore giovanile funziona male?
«Non saprei dirti se il campionato primavera è adeguato a formare i giocatori come le squadre riserve di altre squadre, ma tanto lo fa la fiducia. In Italia non si ha il coraggio di lanciare questi giovani e i limiti d’età del campionato primavera sono troppo alti. Bisognerebbe abbassarli, se sei bravo a 21 anni dovresti giocare in serie A, altrimenti vai nei Dilettanti. Basta guardare l’Under 21 di Ferrara, non ce n’è uno che giochi in serie A. Ora però si sta lavorando un po’ meglio».
Dei tuoi ragazzi c’è qualcuno su cui puntare?
«Sì sì. De Vitis è il capitano dell’Under 19 ed è un centrocampista che può far strada. Poi abbiamo un attaccante francese del ’91, Defrel, ma il pezzo pregiato è De Vitis».
C’è un allenatore a cui ti ispiri?
«Ventura mi ha insegnato tanto e mi piace il suo calcio propositivo, ma mi piacciono anche le squadre che corrono e fanno pressing. L’ideale sarebbe combinare entrambi i modi. Al mondo c’è solo una squadra che lo fa: il Barcellona. Quello è il calcio».
Progetti per il futuro?
«Quest’anno si chiude un ciclo. Ringrazio tutti quelli che a Parma mi hanno permesso di lavorare, a partire dal responsabile del settore giovanile Francesco Palmieri che ha creduto in me. Penso di aver fatto tutto quello che dovevo fare con le giovanili e mi sento pronto per provare un’avventura coi grandi. Mi sto muovendo in questa direzione. Ho qualche contatto in Lega Pro, ma niente di ufficiale e preferisco non fare nomi».
Lo saluto e lo ringrazio, promettendogli che TuttoCagliari continuerà a seguire le evoluzioni della sua carriera da allenatore. Lui ringrazia tutti i sardi «perché mi avete dato la possibilità di conoscere Cagliari e tutta l’isola», e mi dice «Chissà, magari…». Già, magari, tra qualche anno. Con un presidente così attaccato al passato, hai visto mai.
[Gabriele Lippi – Fonte: www.tuttocagliari.net]