Chi è causa dei propri mali, pianga sé stesso.
Recita così un vecchio proverbio ed, essendo ormai vecchia storia quella vista in campo anche ieri, contro l’Inter, la citazione calza a pennello. Due prestazioni importanti, che avrebbero meritato il coronamento coi tre punti, si trasformano in due sconfitte cocenti, dove, al di là degli errori arbitrali di Roma, il Catania palesa una fragilità caratteriale preoccupante per una squadra ormai da 5 anni abituata a fronteggiare, nel massimo campionato italiano, le “cosiddette big”, ma ancora incapace di vincere, la propria, di “sudditanza” nei loro confronti.
Come a Roma, così contro l’Inter, è il vantaggio a far sciogliere il Catania, a farlo arretrare, come non dovrebbe, ad intaccare la determinazione ferrea che fino alla rete di Gomez, come fino al raddoppio di Lopez all’Olimpico, aveva costituito base solida a regger la gara perfetta anche di fronte ad una “grande”.
Fine della gara perfetta, inizio del tracollo. “Se sbagli ti puniscono”, così è, e puntualmente questo accade al Massimino. L’Inter passa sulle uniche due occasioni della ripresa, il Catania, che ne colleziona almeno tre (e ben più nitide) prima del vantaggio di Gomez, in sette minuti passa dal sogno vittoria, al pareggio indigesto, infine alla sconfitta inaccettabile.
Mancata l’ennesima prova di “maturità”, parola tabù più dell’Olimpico, più di qualsiasi altro stadio o altra maglia, o giocatore avversario. Da cinque anni, cinque anni di serie A, il Catania non riesce a far collimare valore della squadra con risultati in campo, ambizioni della società con traguardi raggiunti. Ed è lo stesso a.d. etneo a rinfrancare quello che potrebbe sembrare uno sfogo, ammettendo che questo Catania avrebbe potuto e dovuto raccogliere più dei 21 punti coi quali ha chiuso il girone d’andata. L’obiettivo resta la salvezza, ma a guardare chi sta sopra, tre squadre sotto il Catania dovrebbe lasciarsele nella metà nobile della classifica.
Non si può perdere a Lecce, come non si può non sottolineare il “nodo trasferta”. Troppa la divergenza tra rendimento interno ed esterno. Troppi, 5 anni, per accettare qualsivoglia giustificazione. Troppo, il divario tecnico tra il Catania del 2006 e quello del 2011, per non dedurre che il problema alberghi più nella testa che non nelle gambe.
C’è chi deve costruire, il vantaggio, c’è chi lo deve conservare. A differenza degli anni passati, questo Catania riesce a metter sotto anche dal punto di vista del gioco avversari blasonati e, singolarmente presi, di maggior valore tecnico. I goal non sono mai episodici ma frutto di azioni corali e movimenti lungamente studiati in allenamento. Sono migliorate le “gambe”, non ancora la “testa”. Purtroppo, quando si ragiona come squadra, basta che venga meno una sola delle undici pietre sulle quali si poggia la gara perfetta, e tutta l’architettura perde solidità. E se c’è una “grande pressione”, crolla.
Quando la squadra dimostra di saper e poter reggere l’Inter per 70’, e poi cede tutto in 7’, non è l’allenatore, ma chi va in campo ad aver inevitabilmente sbagliato qualcosa che nei minuti precedenti era riuscito a compiere egregiamente. Concentrazione che deriva dal carattere, e dalla giusta mentalità. Se gli errori di un ragazzo possono essere perdonati, non altrettanto vale per quelli di un veterano che, non in 3 anni non è riuscito ad acquisire la giusta mentalità, non c’è speranza vi riesca nel prossimo futuro.
Non è bello gettare la croce su uno o più giocatori, per questo, focalizzato “il problema”, dovrà esser la società a far i debiti calcoli e sfruttare, la finestra di mercato appena aperta, per porre rimedio a qualcosa che non è possibile aggiustare, e per la quale, continuare a perdere tempo, come fu con Gennaro Sardo, sarebbe del tutto inutile. Per salvarci con una, due giornate d’anticipo, andiamo bene così (+3 sulla terzultima), ma per fare di più bisogna che gli sbagli diventino eccezione e non, come sono ora, regola.
[Marco Di Mauro – Fonte: www.mondocatania.com]