Premessa doverosa: chi scrive questo sentito quanto triste necrologio, ha un rapporto col gioco del calcio declinato solo e soltanto al passato. I volti di quel calcio, sia dei giocatori, sia degli allenatori, sia dei loro cantori, mi emozionano al pari dei ricordi più belli che ognuno di noi ha legati al periodo dell’infanzia ed alla prima giovinezza, col pensiero ai nonni, ai regali di Natale o alle scuole elementari. Lo scrivo per prevenire l’accusa di essere “passatista” poiché io ammetto dichiaratamente e orgogliosamente di esserlo, a dispetto di un’età poco superiore ai 40. Io sono stato infatti passatista con il calcio, sport che ho visceralmente amato da piccolo, già al compimento dei 15 anni (il che vuol dire, seconda metà degli anni ’90) quando mi accorgevo istintivamente che questo meraviglioso gioco, che tale resta nella sua pura essenza, stava prendendo la strada dell’industria, che le società di calcio si apprestavano a diventare aziende a scopo di lucro. Me ne staccai fatalmente, con dispiacere ma con altrettanta convinzione. Non solo l’amore, ma neppure l’interesse, possono essere acquistati. Esistono solo come sentimenti disinteressati e spontanei.
Io penso che se i professionisti che raccontano lo sport prendessero a riferimento la fantasia, l’ironia, l’eleganza e l’inconfondibile tratto stilistico che il compianto Franco Zuccalà, scomparso ieri a Milano all’età di 83 anni, dispensava nei suoi servizi per la Domenica Sportiva o per altre trasmissioni calcistiche, varrebbe la pena starli a sentire anche avendo perduto completamente interesse per il risultato sportivo, o avendo, come fanno in tanti, già visto la partita in televisione o sul pc.
Il suo modo di raccontare la partita era tutto fuorché ragionieristico: in un periodo nel quale il calcio era ancora passione ancorata a rituali tradizionali (il campionato la domenica e le coppe il mercoledì, la numerazione delle squadre in campo compresa fra l’1 e l’11, le divise con i colori sociali di sempre) Zuccalà era capace di offrire associazioni geniali e trovate da funambolo del giornalismo, ponendosi da questo punto di vista nel solco del modello dell’indimenticato Beppe Viola: sdrammatizzare la partita di calcio offrendone uno sguardo obliquo o l’aspetto più scherzoso.
Questa operazione riusciva anche perché i tempi di quel calcio erano ben lontani da quelli frenetici e spesso puramente consumistici attuali, i quali sembrano richiedere tassativamente a chi lo racconti un profluvio di espressioni ansiogene e di noiosi e moderni tecnicismi, (che hanno peraltro altezzosamente messo al bando il gergo tradizionale di questo gioco). Non solo autentici poeti, come Zuccalà o Luigi Necco, ma anche i commentatori meno geniali di quelle lontane domeniche, erano tutti dotati del tratto della riconoscibilità stilistica e del calore umano, tutti felici cantori di un prodotto che dagli stadi entrava nelle case delle persone senza essere sottoposto alla censura preventiva del tecnicismo fine a se stesso, dell’anglicismo all’ultima moda o dell’aderenza ai canoni aziendalistici su cui questo sport ha voluto sacrificarsi.
Franco Zuccalà ci deliziava con i suoi racconti colorati riguardanti essenzialmente le squadre milanesi. E che importava se noi tenevamo per la Juve o per un’altra squadra! Erano, quelli di Zuccalà, servizi accompagnati anche da bellissimi disegni animati degli operatori tecnici della RAI, con i personaggi del pallone (era il tempo del Milan degli olandesi e dell’Inter dei tedeschi) trasfigurati e caricaturizzati, raffigurati in divertenti vesti pittoresche.
E se qualcuno dicesse che era già un modo di fare spettacolo attorno al pallone, di commercializzarlo, io non ho alcun problema a dire che questo è vero, ma che almeno si trattava di arte. Che dietro quell’utilizzo dell’immagine, ma prima ancora della parola, c’era del pensiero. Che ascoltare quei servizi da giovani studenti era anche un modo per capire quante potenzialità espressive il linguaggio riservi alle persone, specialmente quando si racconti un evento di grandissimo impatto sociale e popolare, per quanto fondamentalmente ludico, come il calcio.
Fino a quando questo sport non si sono messi a raccontarlo allo stesso modo i giornali sportivi e quelli economici, con le coordinate aziendalistiche del “fatturato”, della “penetrazione nei mercati asiatici” o con la conta “imbecille” dei followers, che garantisce più profitti di una vittoria in Coppa Uefa (che ora si chiama in un altro modo, ci siamo capiti).
Non sarebbero stati questi tempi per Franco Zuccalà.
A cura di Fabio Alfonsetti
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