Intervista intensa, lunga ed interessante quella che il direttore generale dell’AS Bari, Claudio Garzelli, ha rilasciato ai colleghi di Tmw. Di seguito, le sue parole, concentrate sulla situazione generale della società biancorossa, ma non solo. Ecco l’intervista.
Dott. Garzelli, è al Bari dalla scorsa estate, che ambiente ha trovato? “La società è quella che mi aspettavo, importante, con una tradizione familiare che ha dato certezza, sicurezza e onorabilità alla piazza sportiva di Bari. Ho trovato una società entusiasta dei risultati sportivi degli ultimi due anni, e questo è palpabile, una società che forse ha risentito di alcune situazioni di sofferenza con la tifoseria, con l’ambiente, che vanno indietro di diversi anni. Si avverte nella minore consapevolezza di rappresentare una piazza sportiva di grande livello. Credo che sia dovuto a questo rapporto un po’ teso, poco fidelizzato negli ultimi dieci anni, che ha portato a frenare la crescita anche sotto l’aspetto del marketing e della valorizzazione del brand. I numeri ci dicono quanto è importante questa piazza sportiva, per una consapevolezza che non può non essere sotto gli occhi di tutti”.
Ha mai avvertito la sensazione che la società possa essere in vendita? “Io da quando sono arrivato qua ho avuto l’incarico di lavorare per questa società, e non ho mai avuto fino ad ora nessun segnale di un’attività per rimettere a posto le carte, per poi venderla. A Bari sono arrivato in una società che vuole proiettarsi per il futuro”.
Che modello cercate di perseguire? “Un conto è affrontare le problematiche di una società, non patologiche, e realizzare un programma che non può essere fatto prescindendo dalla situazione reale che s’incontra. Prima bisogna conoscere la situazione, la piazza, e poi da questo si può pensare a che tipo di progetto instillare. Un tempo il modello Juventus andava bene per tutti, tanto più riuscivi ad avvicinarti a quel modello tanto più la tua società era ben ispirata, moderna. Da diversi anni non esiste più, perché le dimensioni societarie interferiscono con gli obiettivi stessi, per comunicazione, marketing e attività commerciali. Ogni società deve capire che dimensione ha, la propria mission, diversa da società a società. Anche l’atteggiamento di una tifoseria e la propria cultura sportiva influiscono su questo, ci sono ambienti che risultano particolarmente sensibili, e altri che sono refrattari. È bene analizzare territorio e gente con cui abbiamo a che fare, e poi senza vestire i panni dei fenomeni riuscire a trovare strade per migliorare l’impatto di questa società sul panorama nazionale”.
Il Chievo, fra le medio piccole, nell’ultimo decennio ha fatto scuola. “Al di là dell’organizzazione e della capacità manageriale di Sartori, che è l’artefice del miracolo Chievo, credo che ci sia stato un pizzico di fortuna, come Calciopoli che aveva penalizzato le grandi. Il risultato sportivo è spesso frutto dell’organizzazione ma anche spesso del caso, parliamo sempre di un gioco che è determinato dall’area del gioco stesso. A Bari la piazza comincia a essere consapevole della propria importanza, vedere che siamo cinquantamila e si può aspirare a qualcosa di più, legato alla parte sportiva, fa crescere l’autostima. L’anno scorso il Bari non era inferiore alle squadre che hanno lottato per entrare in Europa League”.
Un punto di partenza, per pensare in grande, potrebbe essere rappresentato dal rilancio del San Nicola. “Stiamo aspettando da tempo la legge sugli stadi che fa fatica a decollare, lo stadio a Bari è l’unico ancora in vita di quelli costruiti per Italia ’90, costituisce un esempio architettonico di grande livello. Certo, è stato fatto con una logica che non era quella degli stadi moderni, per cui pensare di poterlo adeguare ad esigenze di carattere commerciale sarebbe complicato. Non so fino a che punto il San Nicola possa essere adeguato, lo vedo come un simbolo della città, che ha necessità di continue opere di manutenzione, molto costose per la società che lo gestisce. È certamente bello, se riuscissimo a renderlo più funzionale sarebbe un successo. Non diventerà mai per struttura uno stadio inglese, però stiamo lavorando e ipotizzando alcuni interventi per migliorare la nostra immagine”.
Sempre sul versante stadi, l’Italia presenta uno scenario degradante, certificato dalla mancata assegnazione degli Europei 2016. Come può essere cambiata la situazione? “Siamo da terzo mondo sportivo. Abbiamo grandi dirigenti sportivi, perché abbiamo vinto tanti titoli internazionali. Non abbiamo avuto però imprenditori di calcio. L’unica impresa è quella della Juventus, che faticosamente sta facendo lo stadio di proprietà. Vedi l’Arsenal, fai un progetto di respiro internazionale e attrai gli sponsor. Abbiamo dato tutti i soldi ai calciatori, e tranne qualche centro sportivo, punti di lavoro, non abbiamo fatto niente. Non c’è stato spirito imprenditoriale, s’è navigato a vista. Ora siamo con i sassi alla porta, la cultura calcistica non s’è radicata, e della legge degli stadi non c’è neanche l’ombra. Abbiamo fatto invecchiare i nostri stadi, e ora siamo con l’acqua alla gola”.
Un suo successo a Bari è stato conseguito nel gestire, senza particolari intoppi, l’avvio della Tessera del Tifoso, cosa ne pensa del provvedimento in sé? “Il principio della Tessera del Tifoso può non essere condivisibile per il discorso della schedatura, che tuttavia di fatto già esisteva dal 2005, con i primi decreti Pisanu, quando ti si chiedeva la carta d’identità, e la società era responsabile del mantenimento dei dati sensibili dei soggetti. Oggi si è arrivati a rendere razionale la schedatura, e si è cominciato a scegliere e decidere chi ha intenzione di venire allo stadio con buoni propositi e chi i buoni propositi li lascia a casa. È interessante il programma che si propone la Tessera del Tifoso, tutto si può naturalmente discutere, di fatto la lotta alla violenza negli stadi è condivisibile. Per raggiungere l’obiettivo della sicurezza nello stadio, riportando le famiglie, qualsiasi tipo di sacrificio è accettabile, quindi anche la Tessera del Tifoso. Gran parte della tifoseria, almeno su Bari, l’ha percepita bene. Il numero di tessere ci mette ai primi posti della graduatoria nazionale. Noi, peraltro, le abbiamo date in tempo utile rispetto ad altre società anche di Serie A. I gruppi organizzati qui a Bari, seppure allineati al movimento Ultras nazionale, non hanno posto condizioni di ritorsione, di minaccia, neanche verso alcuni loro aderenti che hanno deciso di tesserarsi”.
Girano strane voci sui bilanci della società: il Bari, rispetto al fair play finanziario, come si pone? “L’idea del fair play finanziario, introdotta da Platini, è una conseguenza di un andamento distorto di gestione delle società di calcio. In Italia abbiamo avuto una serie di situazioni che sono andate a creare forti distorsioni nelle realtà dei bilanci, pensiamo alle plusvalenze od operazioni estere poco chiare. Dobbiamo applicare i principi dell’economia anche alle società di calcio, optional fino a poco tempo fa. In Italia ci sono punti di penalizzazione se non paghi trimestralmente gli stipendi. Ho partecipato come perito della difesa o dell’accusa in processi del genere, e ho una certa esperienza nel campo. Ho verificato quelli che sono gli scenari, dobbiamo andare di pari passo con le esigenze e le possibilità. Il Bari ha beneficiato dell’intervento dei soci, e questo non sarebbe compatibile con il fair play. L’obiettivo è far sì che questa società possa andare con le proprie gambe, e che gli interventi dei soci servano solo per interventi strutturali, e non più per ripianare”.
Lei, nel giorno del suo insediamento, giudicò fondamentale il lavoro di squadra. In questo team si sente più regista o attaccante? “Io mi sento un componente della squadra, lavoro con gli altri, ho competenze a 360 gradi. Coinvolgo tutti, perché il fatto di poter avere una condivisione e una conoscenza anche da parti di soggetti che hanno livelli di responsabilità minori è importante, e fa raggiungere la consapevolezza di far parte di un team. Capire che cos’è il tuo lavoro nella gestione complessiva e futura della società è fondamentale. Serve cognizione di quello che la società sta facendo, perché tutti si sentano partecipi e motivati”.
Il Bari è dal secolo scorso in mano ai Matarrese, in un calcio dove non c’è più spazio per le famiglie. Come valuta questa lungimiranza così, apparentemente, inattaccabile? “Ho sempre identificato la società Bari con Vincenzo Matarrese. Lui ha sempre manifestato entusiasmo, passione, ha un grande attaccamento. Questo attaccamento è del tutto avulso e staccato da elementi personali. A tenere le società per molto sono sempre stati imprenditori che non hanno avuto tornaconto, che non hanno mai pensato di utilizzarle come strumento per attività imprenditoriali. Durano molto meno soggetti che pensano di usare le società per i propri interessi, sembrerebbe un assurdo ma è così. Questa passione sta alla base di questi matrimoni così lunghi. Qui l’investimento effettuato è sempre inteso come miglioramento della società, non come un passare alla cassa”.
Cambiando gli orizzonti, lei da dirigente è costantemente negli ambienti del governo del calcio. Secondo Lei quando si placherà lo scontro tra FIGC e Lega? “In passato ho sempre auspicato una maggiore forza della FIGC nei termini di coordinamento, perché il fenomeno del calcio va sviluppato con una regia, mancata in questi anni. Tutti è stato lasciato in mano alle leghe con labili equilibri. Pensare ai giocatori che, pur essendo controparte , fanno parte dei Consigli Federali, quindi con percentuali elevate decidono le sorti del calcio. La presenza degli atleti doveva essere consultiva, è giusto che parlino, ma non è possibile che dettino condizioni per la politica, eppure con la legge Melandri è avvenuto. Legge che, pur, aveva intenti corretti. Ha modificato il peso dei Dilettanti, portando il motore economico che è la A, in posizione irrilevante. Oggi si decidono cose per la A da soggetti che non sono la A. Condivido le loro rimostranze, perché nel panorama che si profila è giusto che sotto l’aspetto commerciale sia loro pertinenza lo spazio di manovra”.
L’ultimo pensiero per una tifoseria calda e passionale, nonostante le difficoltà della stagione: cosa sente di dire al sostenitore biancorosso? “Sono sempre più lontano dal campo, ma vengo dal calcio. Mi sento vicino alle persone appassionate come me. Per me il tifoso è la persona che conosco di più. È ovvio che questa sensibilità mi porti a comprendere le richieste dei tifosi. Tutto quello che faccio in ambito sportivo deve essere rivolto ai tifosi. Ma nel modo corretto. Senza fare ammiccamenti, non ostaggio. Ho sempre accettato e cercato il dialogo. Abdicare al dialogo con la tifoseria è come abdicare a fare il dirigente sportivo. Non puoi non avere il dialogo con chi vuoi trasferire il tuo concetto, la tua filosofia di vedere il calcio. A questo non ho mai rinunciato. Il tifoso del Bari si comporta benissimo, è sensibile, ama la squadra. È enorme il potenziale, a questa piazza sportiva nessuna possibilità è preclusa, nessuna, deve essere ambiziosa”.
[Andrea Dipalo – Fonte: www.tuttobari.com]