Questa sera a Milano si giocherà Italia-Svezia, ritorno dello spareggio per la qualificazione al Mondiale. La Russia o il baratro
Non è un articolo, è una speranza.
Quando eravamo bambini avevamo il bisogno disperato di avere degli idoli per non aver paura del futuro, tubo bulimico che inghiotte qualsiasi cosa gli capiti di fronte. Ognuno si trovava con i propri amici al parchetto del quartiere, dopo i compiti, zaini per fare la porta e delimitare un campo anche se i sogni non puoi mai contenerli. Intere ore passate con quel pallone in ogni condizione climatica e le ginocchia sbucciate qua e la, la vita sembrava leggera come una piuma all’epoca. Ognuno si regalava il nome di un giocatore per un pomeriggio, ognuno sognava di esserlo per davvero mentre qualcuno cresceva a modo suo. Ognuno di quei nomi, ognuno di quei minuti ci trasportava in un altro pianeta, li dove il mondo e i suoi rumori erano di troppo. Ma il tempo passa, le lancette della vita scorrono inesorabilmente ma tornano a quei tempi ogni volta che c’è il Mondiale.
Nella prima pagina del libro di quel genio di Federico Buffa c’è una frase che dice: “I Mondiali hanno scandito i tempi della nostra vita e scandiranno quelli di chi verrà dopo”. Una gigantografica frase lapidaria che non ha bisogno di commenti, ha bisogno di ricordi perché ognuno di noi ogni quattro anni torna ad essere un bambino. Ognuno di noi torna ad essere parte integrante di qualcosa perché ogni 1500 giorni torniamo a essere un popolo, torniamo a essere Italiani. Ne ho vissuti cinque di Mondiali nella mia vita: ero nel passeggino quando dalla televisione ho visto le mani al volto di Di Biagio in Francia, quattro anni dopo ho conosciuto le prime parole non scritte nella Bibbia in un assolato pomeriggio italiano mentre la Corea (e Moreno) ci buttavano fuori. E poi, poi c’è il 2006: c’è il sogno di ogni bambino che ama questa bolla di follia e passione. C’è tutto in quel mese, in quello spicchio d’estate: il rigore di Totti, il passaggio di Pirlo, l’urlo di Grosso, la zuccata di Materazzi e l’urlo di un popolo 24 anni dopo l’ultima volta.
Dai sogni, però, bisogna svegliarsi prima o poi ed il risveglio è qualcosa di più di un semplice lunedì mattina: nel 2010 soggiorniamo dieci giorni in Sud Africa e nel 2014 ripetiamo la stessa cosa in Brasile, perdiamo con la Costa Rica. Le notti magiche sembrano essere cosi lontane e le nostre vite scorrono in maniera direttamente proporzionale alle speranze del nostro paese. L’Italia, paese di santi e di navigatori, di poeti e, nel corso del tempo, di truffatori e allenatori, di detrattori e conquistatori di voti. Una nazione che non sembra tale, forse non lo è mai stata ma poi c’è la Nazionale. C’è quella voglia di sentirsi uniti anche se non ci si conosce, c’è il gusto della critica che non manca mai, c’è il 4-3-3 o il 3-5-2, c’è la voglia di sentirsi parte integrante di qualcosa almeno per un istante, uno schiocco di dita o una battito di ciglia.
C’è un Mondiale alle porte, c’è la Russia che ci aspetta e noi non possiamo fallire perché non esiste un’Italia senza Mondiale e non esiste un Mondiale senza chi quella coppa l’ha alzata quattro volte. Bisogna alzare gli occhi al cielo questa sera, nel cielo di Milano sotto le luci di San Siro perché da questa notte non si può tornare indietro, non c’è via di scampo: c’è la Russia o il baratro più totale. Di fronte c’è la Svezia, quella che nel 2004 (insieme alla Danimarca) ci ha buttato fuori dall’Europeo, quella che tre giorni fa ci ha colpito, anzi, ci siamo colpiti da soli. Basterà poco questa sera, basterà guardare la partita di venerdì e fare l’esatto opposto. Bisognerà lottare con tutte le forze perché venerdì l’Italia non ha chiamato, si è crogiolata e non è stata pronta alla morte. Questa sera bisognerà essere pronti. Questa sera non si può scappare, qui si fa l’Italia o si muore.