La Juventus sta svolgendo un ruolo meritorio. Sta provando a ristabilire la giusta inclinazione della storia del calcio italiano. Una storia drogata, contaminata e stravolta. La scelta politica di non far filtrare le telefonate dell’Inter nell’estate 2006 ha evitato i processi alla squadra che ha vinto i 4 scudetti successivi. In base a quelle telefonate, l’Inter doveva essere deferita. Lo ha stabilito il procuratore federale Palazzi, quello, e nessun altro, che nel calcio italiano fa i deferimenti. Non fa le sentenze, ma fa i deferimenti. E, in quanto deferita, l’Inter non avrebbe potuto fare le spille, il mercato, la Champions. Non avrebbe potuto soffiare Ibra al Milan e non avrebbe avuto tempo e concentrazione per gli altri acquisti.
Avrebbe dovuto, doveva in base alle 27 pagine del procuratore federale Palazzi, difendersi nei processi e subire magari la stessa penalizzazione del Milan: come minimo, visto che nelle sue telefonate i livelli coinvolti erano molto alti a livello dirigenziale, come per Fiorentina e Lazio. Invece le telefonate silenziate e drenate dell’estate 2006 hanno cambiato la storia, hanno massacrato la Juventus, penalizzato il Milan e mandato in paradiso l’Inter. Lo Scudetto del 2006 è il simbolo di uno sbilanciamento economico e sportivo devastante, pazzesco, tutto e solo a favore dell’Inter. Allora, anche se a qualche osservatore può apparire un po’ focosa la portata di alcune delle azioni legali juventine, va dato atto e merito alla dirigenza bianconera con i suoi legali di aver dato vita ad una azione ad ampio respiro per ristabilire quei pesi e contrappesi dell’intero calcio italiano offesi e violentati dalla disparità telefonica dell’estate 2006. Quella che non accetta gli attendismi e che non si arrende di fronte a nessuna indecisione isituzionale , è una Juventus a tutto campo, che si immola per tutti e per l’intero equilibrio del calcio italiano. Avanti così. Avanti così, perché è giusto.
Il due a tre di Milan-Barcellona ha riaperto tante bocche. Le solite. Rispetto personalmente il giudizio di valore, più che di merito, di Luciano Moggi che alza l’asticella e da dirigente esigente dice che il Club più titolato al Mondo non può esultare per una sconfitta. Vero. Ma è altrettanto vero che nessuno esulta in casa Milan. Però si giudica, si pesa e si valuta. E allora è vero che tenere aperta per tutti i 90 minuti una partita contro una squadra che sulla carta, e spesso sul campo, può battere 5-0 tutte le squadre del mondo, significa non essere molto lontani dal Barcellona. E non è poco. Se poi a fare le pulci a Milan-Barcellona, sono quelli che, se ci fosse stato lo scontro diretto andata e ritorno, sarebbero stati eliminati dal Trabzonspor (0-1 a San Siro e 1-1 a Trebisonda), beh allora le cose francamente cambiano. E diventano sostanzialmente inaccettabili. Ciascuno faccia il suo e pensi al suo girone. Il Milan, nel suo gruppo, le squadre come Plzen e Bate Borisov, che sono più o meno del livello di Trabzonspor, Cska e Lille, le ha battute.
Poi c’era il Barcellona e il Barcellona, se si sa di calcio e se si capisce di calcio senza confonderlo con pizza e fichi, non può mai diventare motivo di sfottò e di scherno per nessuno. Perché il Barcellona fa oggi un calcio nettamente superiore al 2010: negli ultimi due anni ha valorizzato ulteriormente la finalizzazione portandola sullo stesso livello d’eccellenza della circolazione e del possesso. Se il Barcellona di oggi si esprime al massimo, sul pianeta non c’è nessuno in grado di essere competitivo. Lo hanno capito gli 80.000 di San Siro che al fischio finale di Stark hanno applaudito. Non lo hanno capito quelli che dopo il rito stanco del pareggino del martedì, si sono messi su quello che resta, sul trespolo avvizzito e depresso da due estati di mercato a fari non tanto spenti quanto difettosi. E da lì provano a balbettare qualcosa su un evento irrimediabilmente più grande di loro.
Mi piace infinitamente la Roma. Ha un allenatore nemico dei luoghi comuni, capace di non fare nessuna concessione al teatrino mediatico del calcio italiano. Un allenatore solo di campo e di spogliatoio, che non sfugge al confronto con i giocatori e che non concede nulla agli amici degli amici. Le parole che Luis Enrique ha dedicato a Rodrigo Taddei prima di Udinese-Roma (scrivo prima di questa partita e qualche sia il risultato, il mio modesto giudizio non cambia), sono di alto livello e di grande valore. Mi piace da morire la Roma perché gioca bene a pallone, perché cresce, perché prescinde dai totem. La velocità delle prime partite dei giallorossi non è paragonabile a quella di oggi. Vinca, perda o pareggi, la Roma di oggi vanta ed esibisce accelerazioni di qualità assoluta. E’ una squadra disposta in campo in maniera coraggiosa, che raccoglie al suo interno giocatori maturi come Daniele De Rossi che non si sono mangiato l’allenatore quando la tavola era già imbandita, ma hanno prima provato a seguirlo e poi lo hanno interpretato con convinzione.
Dopo lo Slovan Bratislava, Luis Enrique era un agnello sacrificale. Brava la società, ma intelligenti i giocatori. Non lo hanno offerto agli dei della comunicazione che si erano già sistemati il bavagliolo, ma hanno posto le prime pietre di una bella avventura. In un mondo che si nutre solo di casi e di veleni, è bello vedere giocare la Roma su un campo di calcio. Il pallone che gira con garbo, la partita che accelera da un momento all’altro, la squadra che non protesta, l’allenatore che non drammatizza. Brava Roma, bell’esempio. Lontana dai cinismi e dalle speculazioni, la squadra giallorossa ha anche saputo riemergere dai fumi di un derby balordo perso immeritatamente a causa di un episodio. C’è freschezza in campo ed equilibrio fuori. Seguiamola questa squadra, se lo merita.
[Mauro Suma – Fonte: www.tuttomercatoweb.com]