Lotito: “Oggi abbiamo una squadra quadrata, ma credo manchi ancora la mentalità da grande”

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Un fiume in piena, difficile immaginarlo diversamente. Claudio Lotito è così, vis polemica e voglia di cambiare il mondo e ora non più solo quello del calcio. Il presidente biancoceleste gongola per la sua Lazio quasi da vertice, un’armata convinta dei propri mezzi consapevole di poter puntare in alto. Un’armata che vince e convince, e si gode il suo Miro Klose dai piedi fatati sempre decisivo, sempre un campione. La Lazio è la sua vita, il patron dedica tutto il tempo dei suoi mille impegni al calcio, ma ora nel cassetto c’è anche un altro sogno: quello di scendere in politica, di accettare una delle tante chiamate e candidarsi conciliando i quattro telefoni che squillano in continuazione e quel toast che si concede a pranzo nella fretta.

Nel mondo del calcio è entrato senza bussare, senza troppi complimenti, facendosi parlare dietro forse ma consapevole delle sue azioni: ha salvato la Lazio dal fallimento, e tra luci e ombre l’ha riportata in alto, ora la vuole ancora più forte: «Dobbiamo proseguire in questo tragitto intrapreso da nove anni, rispettando i famosi tre parametri. Oggi abbiamo una squadra quadrata, ma credo manchi ancora la mentalità da grande. Questo handicap nasce dall’ambiente. Molti parlano ancora di Lazietta, forse perché ha avuto in passato tanti problemi e non ha ottenuto risultati, a parte l’era cragnottiana», ha dichiarato in una lunga intervista concessa dal presidente Lotito al Corriere dello Sport, tre ore nella redazione del quotidiano romano, un fiume in piena.

Lotito nei rapporti ora sembra ammorbidito.
«Ci sono una serie di fattori che concorrono ai cambiamenti. Quando sono entrato nel 2004 esisteva la concezione del “più spendi e più vinci”. Ho cercato di rompere l’assioma. Immaginate la stessa acquisizione della Lazio, l’ho presa con 550 milioni di debito, fatturava 84 milioni di euro e ne perdeva 86 di esercizio. Non era un’avventura, sembrava una sfida impossibile. L’ho fatto per tre motivi. Primo: sono tifoso della Lazio, mi dicevano anche che ero romanista. Non è vero. Sono laziale dall’età di sei anni, ci sono diventato per il rapporto con la mia tata, il cui fidanzato era laziale. Faceva il panettiere. Parliamo degli anni Sessanta. Il secondo motivo è stato lo spirito di servizio. Ho un’estrazione umanistica, ho sviluppato il concetto della polis, gli studi mi hanno spinto verso la collettività. Facevo l’imprenditore. Il territorio mi aveva dato la possibilità di esprimere le mie potenzialità, ritenevo giusto restituire qualcosa. La considerai una sfida non impossibile, ma al limite. Mi piacciono le sfide. Prendevo una società tecnicamente fallita. Inventai una serie di situazioni, come prestiti e parametro zero. Presi un allenatore a 50 mila euro, il predecessore guadagnava 4,5 milioni. Ero un naufrago in mezzo al mare. Non dormivo più di un’ora e mezzo, non era solo un problema di investimento, ma di azioni da mettere in campo. Mi sono scontrato con tutti. La società perdeva più di quanto incassasse. Bisognava fermare l’emorragia. Quello che dovrebbe fare oggi il governo. Il bilancio statale è un serbatoio bucato che continua a perdere».

Lotito si sente più cambiato dal calcio o ancora non è riuscito a cambiare il calcio?
«Oggi la Lazio è una delle poche società in regime di Fair Play finanziario riconosciuto dall’Uefa, sempre in utile. Ho creato il ramo “Marketing & communication”, risolvendo il problema del marchio, lo spalmadebiti venne ridotto da 10 a 5 anni, chiesi che l’applicazione entrasse in vigore nell’esercizio successivo. Salvai il bilancio attraverso la valorizzazione del marchio, all’epoca non si poteva iscrivere in bilancio. Chiesi un parere. Non era un’alchimia bilancistica, era un fatto reale. Il Tribunale nominò un perito. Il marchio venne valutato in 120 milioni con una proiezione a 15 anni, così abbattei altri 150 milioni. In seguito, molti altri presidenti adottarono il mio stesso criterio. La Consob all’inizio non voleva recepire quel criterio, ricordo che battaglie. Oggi la costola marketing produce 10 milioni di utili l’anno, è proprietaria di tv, radio, negozi».

Perché ha preso la Lazio?
«L’ho fatto per il gusto della sfida. Rilevarla significava salvaguardare un patrimonio tecnico, sportivo, culturale. E’ nata nel 1900, fa parte di una Polisportiva, è la prima squadra della Capitale. Capisco che a qualcuno possa dar fastidio, ma è la verità. Sarebbe stato più semplice farla fallire e prenderla a costo zero, come hanno fatto tanti miei colleghi».

Con la Lazio ci ha rimesso o ci ha guadagnato?
«La Lazio guadagna soldi per pagare i debiti. Io non percepisco un euro. Appena sono entrato, ho eliminato gli emolumenti del Cda, ho eliminato le consulenze. Il mio predecessore guadagnava 500 mila euro, l’amministratore delegato un milione, il direttore generale 400 mila. Ho fatto cose contro i miei interessi. Mettendo 25 milioni per il 21 per cento. Oggi ho oltre il 67%. E’ una società non scalabile, lo dico e lo ripeto a chi parla di arabi. Mi piacerebbe che la squadra ritornasse ad assurgere a quei risultati che aveva conseguito alla fine degli anni Novanta. Pago 6 milioni al Fisco ogni anno in anticipo».

Ora Lotito sembra più vicino alla sua gente.
«Quando entri in un sistema ingessato, devi rompere gli schemi. Ho dovuto usare toni forti. Le persone non capivano, ma non è colpa mia se cammino con cinque anni di anticipo rispetto agli altri. Non capivano i parametri zero, i prestiti con diritto di riscatto, dicevo sempre di voler costruire la casa non sulla sabbia ma sul cemento armato. L’ho fatto. Il primo anno siamo entrati in Intertoto, acquistando 9 giocatori in un giorno, poi siamo andati in Uefa, infine in Champions, il quarto anno è arrivata la Coppa Italia, il quinto la Supercoppa. Ho portato risultati. E sto pagando ancora i debiti fatti dagli altri. Il mondo non capiva, ho assunto di conseguenza una posizione frontista, mi sono chiuso, c’era una visione dissenziente da parte di tutto l’ambiente».

L’idea di un campionato a 18 squadre le piace?
«Il campionato a 18 squadre l’ho proposto io, ci si approderà, il calcio non ha le risorse per sostenere questo numero elefantiaco di società. E non si può fare un paragone con la Spagna. I ricavi del Real e del Barcellona in Italia non esistono, se avessi 270 milioni di ricavi, sai che farei… I risultati della Lazio li ottengo con 90 milioni di fatturato».

Perché altri club non tendono ad allearsi in Lega con Lotito?
«Stanno maturando le condizioni per trovare un accordo».

Come mai ha rilevato la Salernitana?
«Per la visione che ho io, è un bene che una squadra di A acquisisca una di Lega Pro. Significa salvaguardare il territorio e mettere i giovani in mostra. Faccio un discorso pratico. Alcuni territori non hanno le potenzialità per permettersi la serie A. Ci dobbiamo preoccupare delle cose realizzabili, non dell’impossibile».

Ora si è riaperto il dialogo con la tifoseria.
«Non ho nessun accordo. L’errore è questo. La tifoseria aveva assunto una posizione frontista, strumentale. A marzo del 2005, quando lanciai l’idea dello stadio, successe un terremoto. Inutile tornarci sopra. Oggi sono passati otto anni, c’è stato un processo di maturazione e di consapevolezza. La società non ha fatto un passo indietro, sta solo riconoscendo i comportamenti diversi della tifoseria. Come presidente devo coltivare i risultati, salvaguardare il bilancio, ma anche la passione e i sentimenti comuni. L’idea della Lazio, la passione, la storia sono di tutti».

Lotito ha fatto un’operazione importante dopo gli incidenti di Campo de’ Fiori.
«Sono intervenuto a difesa della tifoseria, come padre della famiglia».

Ma il rapporto con la Curva è cambiato?
«Non ho fatto un passo indietro, sono loro che fanno le cose giuste. Il Terzo Tempo è una cosa positiva. Non sono cambiato io, è cambiato il mondo intorno a me. Di salary cap ne parlavo nove anni fa, mi prendevano per matto. Oggi i fatti testimoniano che avevo ragione. La sovraesposizione mediatica all’epoca era necessaria per far valere certi principi. Ora lascio l’opinione alla gente. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto non per risolvere problemi personali, ma per salvaguardare l’interesse generale».

Che succede con Diakitè?
«Diakitè l’ho preso dal Pescara e l’ho portato nella Primavera. L’allenatore di allora non lo vedeva. Prendeva uno stipendio di un certo importo, l’ho tutelato come se fosse un figlio, si ruppe una gamba, gli rinnovai il contratto quando stava male. E lo vorrei tenere. E’ un anno e mezzo che glielo dico, lui spara una cifra spaventosa per firmare, fuori da ogni logica. Più del doppio di quello che prende Biava. L’Inter? Dicitur… Non dicunt. Ho posto il problema. La fonte mi ha negato. Ho parlato con Fassone e Moratti. Se domattina Diakitè si comporterà in modo diverso, vedremo».

Esclude di cederlo a gennaio?
«L’elemosina la faccio in Chiesa, l’autorevolezza si vede nella coerenza. Per Pandev rifiutai 5 milioni, quei soldi mi avrebbero obbligato ad abiurare dalla battaglia sul contratto collettivo. Oggi i giocatori non possono più fare giochetti con gli arbitrati finti».

Le piacerebbe passare alla storia per il risanamento della Lazio, che è già una vittoria, o per qualche scudetto vinto?«Le vittorie devono essere a 360 gradi. E’ troppo semplice fare il risanamento e finire in serie B, bisogna coniugare il risanamento con i risultati sportivi. Non voglio raccogliere meriti, è un percorso, una valutazione che faccio di me stesso, le sfide sono con me stesso, non con gli altri. Il tempo lo dirà. L’anelito di ogni uomo è migliorare sempre, lo scriveva Dante».

Nel calcio, però, si passa alla storia per le vittorie.
«Tutti parlano di pallone e pochi di calcio. Ho cognizione dell’aspetto tecnico. Guardate la Salernitana. Ho cacciato l’allenatore che non volevo prendere, lo sanno tutti, ho richiamato Perrone mentre mi trovavo al ristorante a mezzanotte e gli ho detto “domani sei in campo ad allenare”. Oggi è primo in classifica, ha fatto 12 vittorie di fila».

Prenderà altri due Klose per il centrocampo e la difesa?
«Klose è venuto alla Lazio a cifre molto più basse di quelle che guadagnava al Bayern. Non vi dico chi lo voleva, ma ha scelto di venire a Roma. Lo stesso è accaduto alla Salernitana, dove sono arrivati giocatori di B solo perché ci sono io. Klose è un grande uomo. Mi chiedete, ma non si va al supermercato e si prende. Il giocatore va trovato per quello che serve all’allenatore e con il profilo giusto tecnico e umano. Non c’è il nome. Lo stiamo cercando? Certo. Alla Lazio ho il mercato 24 ore al giorno, neppure sapete quello che stiamo guardando».

Mancini ha detto che la Lazio può essere l’anti-Juve.
«No, non quest’anno. La Juve si trova con 8 punti di vantaggio su di noi, ha 270 milioni di ricavi ma è uscita con 70 milioni di perdite. Noi produciamo 10 milioni di utili e abbiamo 90 milioni di ricavi».

Dove farà lo stadio?
«Quando facevo la battaglia per lo stadio, mi deridevano, ma le stesse persone hanno avuto dei danni. Sono passati quattro anni. Ma quali speculazioni? Ho un progetto di stadio che quello della Juve sembrerà un laghetto di anatre».

Petkovic non si tira indietro di fronte a niente.
«Lo scudetto? Non facciamo voli pindarici, Petkovic lo deve dire, io sto con i piedi per terra. Questa squadra è forte, deve acquisire la mentalità da grande squadra, Klose è da grande squadra, perché ha la mentalità del campione, guardate la gestione fisica. Non faccio proclami, ho fatto quello che avevo promesso, manca solo lo stadio. Ora deve uscire lo legge».

E’ vero che, dopo la firma del contratto, Klose non ha voluto brindare perché voleva andare a riposarsi?«Siamo andati a mangiare in un ristorante, era il giorno del suo compleanno. Lo vedevo assonnato. Mi disse: “Scusi presidente, ma vado a dormire, domani ho l’allenamento”. Mi ha sorpreso ancora di più quando chiese di allenarsi con la Primavera. Mi chiamò Bollini. A fine allenamento, con tutta la squadra sotto la doccia, Klose era andato a raccogliere i palloni».

Se resisterà Beretta in Lega, cambieranno le cose? E se vincerà Abodi il contrario?
«Ci sono due modi per gestire, il cambiamento e il consociativismo. Io non sono per il consociativismo. Le riforme passano per la condivisione delle scelte. Io voglio gli equilibri del sistema, non cerco meriti. Lavoro per le riforme. Nel tempo sono diventato ingombrante. Beretta non so nemmeno dove abita, ma è persona perbene, trasparente. Voglio un presidente che dia autorevolezza all’ente. Poi bisognerà fare un Consiglio forte. La Lega oggi è in mano ai funzionari. Abodi non è mio nemico, secondo me non ha lo standing per fare il presidente di Lega, l’ho detto anche a lui».

La proprietà americana la lascia perplesso?
«Guardo a casa mia. A parte le battute tipo lo zio Tom e “America me senti”, non vorrei esprimere giudizi. E’ successo il caos per quel paragone con la famiglia Sensi. I tifosi si vogliono identificare, hanno bisogno di un capofamiglia. Senza un interlocutore, puoi avere dei risultati, ma è un rapporto freddo. Una volta c’era il campione, le maglie bagnate di sudore. Ho cercato di ricreare un legame con la storia. Ho portato Gascoigne all’Olimpico. E non sapete quanto mi costa l’aquila».

Nella Roma c’è Totti.
«E’ vero. Come simbolo è rimasto il giocatore, ma la società? La Lazio è Lotito, nel bene o nel male, forse per 99 su 100 nel male, l’interlocutore ti rappresenta. Manca il contatto umano, non lo dico per spirito di contrapposizione alla Roma».

Se la Salernitana salisse in serie A?
«Non sono abituato a fasciarmi la testa prima di romperla. Bisogna agire per tappe. Ho preso la società all’Inferno, oggi stiamo nel girone degli ignavi, tra color che son sospesi. Speriamo nel Purgatorio, che sarebbe la C1. Anche il Paradiso aveva vari strati, la serie B sarebbe già un grande risultato. Credo si farebbe fatica in A. Eventualmente ci sarà qualcun altro che prenderà la Salernitana, non a caso ho messo mio cognato. E’ socio al 50 per cento».

Avrebbe preso Zola e non Petkovic?
«Zola è stata una mia invenzione per stimolare Reja. Edy non sopportava la pressione. Non sapete quante volte ho difeso e spronato i miei allenatori. Ballardini era un buon tecnico, fu solo sfortunato, perché capitò nel momento della guerra, si erano create situazioni di ingovernabilità nello spogliatoio. Ma ha vinto la Supercoppa contro Mourinho, l’ha vinta tatticamente, mi disse metto Matuzalem dietro le punte, Mauri perché mi dà subito profondità. Vincemmo con un gol di Matuzalem vicino alla porta e un altro di Rocchi lanciato da Mauri. Ballardini entrò in Europa League, poi la squadra crollò. Alla fine, quando non poteva esserci più rimedio, concordammo il divorzio».

Arrivò Reja.
«Mi arriva una telefonata, mi dicono c’è Reja a Spalato, aveva una clausola, poteva liberarsi. Andava convinto il sindaco, che aveva in pugno la squadra. Due giorni infernali di trattative. Edy si convinse a venire alla Lazio, ma dopo la sconfitta con il Bari, era passato appena un mese, se ne voleva andare. Lo feci tornare a Roma. Ordinai il ritiro a Norcia. Erano tutti riuniti a Formello, portai lo psicologo e davanti alla squadra feci un discorso di grande responsabilità. Non vi mando in ritiro per punizione, ma solo per ritrovarvi. Non vi potete permettere di prendere in giro in tifosi. Avete deciso di andare in B? Liberi di farlo, ma a Roma poi non tornerete. Rocchi mi disse: “E’ un problema di testa”. Benissimo, c’è lo psicologo. Feci partire tutti per Norcia. La sera mi arriva una telefonata. Era la squadra: “Abbiamo fatto un’Ansa, non vogliamo lo psicologo. Ci siamo parlati tra di noi. Ci assumiamo la responsabilità“. Quello che volevo. Dopo un paio di giorni, mi chiamò Edy. “Aveva ragione lei, ha dato la scossa”».

Rossi ha fatto crescere il patrimonio tecnico, Reja era il leader del gruppo. Può tratteggiare un profilo di Petkovic?
«Siamo ad un altro livello. Petkovic ha respiro internazionale. Non è un integralista, gli deriva dalla sua cultura umana, ha lavorato alla Caritas. Rossi l’ho sostenuto molto, ma lavorava bene sul campo. Reja è un uomo di grande esperienza, gestiva i rapporti nello spogliatoio. Petkovic unisce le due cose, e in più ha una grande capacità comunicativa. Mi piace questa Lazio. Ho un gruppo fantastico, di gente seria, sono orgoglioso. Ne vado fiero».

Su Mauri mette la mano sul fuoco?
«Posso esprimere un giudizio sulla persona. E’ corretto, va a Medjugorie, se la notte si trasforma non lo so. Non mi sembra un tipo legato ai soldi, fa vita misurata. Non entro nel merito delle indagini. Mauri lo vedo sereno, tranquillo, anche in campo».

Pensa che Zarate andrà via a scadenza?
«Nella vita ognuno fa quello che gli pare, manca un anno e mezzo, se vuole fare il pastore in giro per Formello…. Galatasaray e Marsiglia lo volevano ad agosto, ma ha preferito non andarci».

Se Diakitè ci ripensasse, troverebbe la porta aperta?
«Mi sono comportato bene. E spero sempre nella parabola del figliol prodigo».

State cercando un Brocchi più giovane?
«Abbiamo delle idee, vediamo se collimano con la realtà, dobbiamo far crescere i nostri giovani. Onazi sta andando bene. Il contratto? Sì, lo ha fatto. E poi Cavanda. E’ diventato un’alternativa importante a Konko e Scaloni. Non sapete quanto Scaloni ha contribuito alla maturazione di Cavanda».

Montella era uno dei candidati prima di Petkovic?
«Sì era l’allenatore dei miei pensieri, ma probabilmente non sarebbe mai venuto alla Lazio».

[Giorgia Baldinacci – Fonte: www.lalaziosiamonoi.it]