Domani Buffon lascerà la Juventus, l’addio dell’ultimo baluardo di quei campioni che hanno reso grande l’Italia calcistica.
TORINO – Siamo entrati definitivamente in un’altra dimensione con annessi e connessi dettati della nostalgia e dall’incapacità, o dalla forza, di tornare indietro nel tempo anche solo per un istante. Come se fosse una meteora che, al suo passaggio, lascia quella scia di luce prima di prenotare il ritorno quasi cento anni dopo, come se quello spazio d’attesa diventasse un limbo inespugnabile, per aspettare e sperare, viaggiare a ritroso nel tempo per ripensare almeno per un nanosecondo a ciò che è stato. A ciò che inevitabilmente non sarà e non potrà mai essere, esulandoci dal contesto prettamente tecnico, perché nella nostra Italia calcistica marchi cosi forti e contraddistinti, presenti contemporaneamente, li rivedremo forse in un’altra vita.
In un bel miraggio che lascia sbiadito il contesto alla vigilia dell’uscita di scena dell’ultimo baluardo, dell’ultimo mattone di quelle fondamenta che, agli occhi dei bambini di ieri, sembravano incrollabili e ferme mentre tutto il resto era affetto da capogiri. Uno ad uno, senza far rumore, con lasciti enormi e silenzi che si sono discostati, allontanati lasciando lacrime, lasciando la consapevolezza (un po’ a tutti) amara di qualcosa che ruota non solo in campo ma intorno alla vita stessa. Il calcio come calamita di emozioni, le bandiere come un cardiochirurgo pronto a far decollare i battiti, a regolarli a seconda di un lancio illuminante, di una copertura difensiva, di una parata o di una giocata sopraffina. Dal pomeriggio di Milano di Maldini al tramonto giallo e rosso di Totti, dalla Torino dipinta a festa per Del Piero fino al San Siro nero e azzurro per Zanetti. Infine l’addio silenzioso di Pirlo, la bandiera di tutti, e domani il cerchio che si chiuderà inevitabilmente con l’ultima parata di Gigi Buffon.
Protagonisti di un’Italia calcistica ancora sognante, temuta da tutto il mondo e capace di unire nelle notti estive e in quelle europee e nei pomeriggi afosi, capaci di regalare gioie inenarrabili a chi ha vinto, pianto e gioito per la sua fede. Per loro, per coloro che hanno rappresentato al meglio il carattere e la storia delle loro società d’appartenenza, per loro che da sempre sono bulimici di trofei, per loro per cui le standing ovation sono sempre poche. Un applauso come omaggio, una lacrima come lascito e quell’amara consapevolezza che vent’anni sono trascorsi come un lampo, come se la vita ci avesse mostrato un trailer lungo diecimila giorni. Come se le loro parate fossero le nostre, come se i loro gol e i loro salvataggi difensivi fossero nostri. Come se noi fossimo loro anche solo per un’istante.
E poi c’è la maglia, la loro corazza, la carta d’identità di un ventenne/trentenne di oggi che ricorda i pomeriggi infiniti trascorsi ad imitare le loro gesta sognando, magari anche solo per un spazio minimo, un incontro e una foto. Ricordi impossibili da calpestare mentre il viaggio verso l’altra dimensione è ormai completo, il caricamento è al 99% e a noi non resta che goderci l’ultimo spiffero di un vento caldo e tenero, impetuoso ed emozionante. Infinito.