L’immagine che vedete qui a fianco ritrae Massimiliano D’Asburgo Lorena, arciduca d’Austria e principe imperiale, incoronato Imperatore del Messico il 3 ottobre 1863 col titolo di Massimiliano I del Messico.
A lui si deve la costruzione del Castello di Miramare a Trieste, un autentico gioiello che volle come sua residenza, a dirupo sul mare, nel meraviglioso scenario del promontorio di Grignano. Il suo monogramma – la doppia M con al centro la lettera I, che sta appunto per Massimiliano Imperatore del Messico (la vedete al di sotto dello stemma) – monopolizza la tappezzeria di molte delle stanze del castello. Da sabato scorso questo stesso simbolo potrebbe a buon diritto apparire nei corridoi di Milanello in onore di Massimiliano Imperatore del Milan. O, se preferite, per dirla con il Presidente Berlusconi, del Dottor Massimiliano Allegri.
Non poteva che partire da Trieste, dalla patria di Nereo Rocco, il resoconto agiografico delle gesta dell’allenatore campione d’Italia. E da Trieste, o meglio dal triestino doc, era partita la sua avventura in rossonero. Da quella prima passeggiata estiva per i boschi di Milanello, con visita e foto di rito sotto la statua del Paròn. Una sorta di benedizione, quella che sarà giunta dall’alto in friulano stretto a questo livornese d’acciaio, nello spogliatoio da subito perfettamente inquadrato come “ambizioso con le palle”, stando a quanto riportato in tempi non sospetti da Federico Buffa su Milan Channel. Lui che aveva vinto nel 2009 il premio, guarda caso, intitolato alla memoria di Nereo Rocco, si è rivelato in realtà la sintesi perfetta dei tre grandi condottieri della storia più recente del Milan berlusconiano. Filosoficamente rivoluzionario e infinitamente coraggioso come Sacchi, ma senza l’ossessività compulsiva e l’integralismo fondamentalista del grande Arrigo. Tatticamente capelliano, ha gestito il gruppo, anche nei momenti più difficili – e ce ne sono stati – con i modi, il buon senso e l’equilibrio di Carlo Ancelotti.
La rivoluzione silenziosa di Massimiliano Allegri è stata un capolavoro assoluto, di cui forse non riusciamo ancora a comprendere fino in fondo la portata. E’ arrivato nell’anno in cui l’azionista è tornato a investire, e quindi c’era l’obbligo di vincere. Aveva, perciò, tutto da perdere, al contrario del suo predecessore che, se solo avesse saputo incassare senza isterismi i rilievi di Berlusconi, sarebbe ancora oggi, nostro malgrado, l’allenatore del Milan. Nel momento in cui la Fininvest – per ragioni non solo calcistiche – ha sentito l’esigenza di tornare a sventolare la bandiera del Milan per dare un’iniezione di positività all’immagine del Presidente, ha speso tanto e bene. Se Allegri non avesse vinto sarebbe stato facilmente additato come il responsabile, e liquidato – il copione è ormai collaudato – come quello che non ha ascoltato gli illuminati consigli presidenziali, come quello non all’altezza della grande squadra. E buonanotte ai suonatori.
Invece è andata esattamente al contrario. Il mister ha rischiato tutto, si è così giocato l’osso del collo, e lo ha portato in salvo, uscendo da trionfatore su ogni fronte. Ha giocato d’azzardo contemporaneamente su due tavoli, e ha stravinto. Si è ritrovato a disposizione i nuovi acquisti “pesanti” solo alla seconda di campionato, appena due giorni prima della trasferta di Cesena. Con il cambio di equipaggio dopo il decollo, il rischio di precipitare è stato assai concreto. E, infatti, le turbolenze – a Cesena, in casa col Catania, a Madrid, tanto per citarne alcune – non sono certo mancate. La squadra aveva in testa l’idea – drammaticamente incrostata da anni – di un calcio ormai improponibile, fatto di sviluppo inerziale del gioco in orizzontale, di palleggio a ritmi lenti, di giocate di classe fini a se stesse, di totale disinteresse alla fase difensiva da parte degli attaccanti e dei centrocampisti. La soluzione per Allegri, in teoria, era semplicissima, e non poteva che passare da un ribaltamento copernicano dei valori e delle gerarchie, però in concreto impraticabile se ti trovi sotto il fuoco incrociato da un lato del Presidente che pretende il possesso palla e i giocolieri alla Ronaldinho, e dall’altro dei veterani col posto fisso cui sarebbe stato necessario far digerire l’equivalente calcistico della riforma Brunetta. E con la stampa e la gran parte dei tifosi a sognare Ibra, Pato, Robinho e Ronaldinho contemporaneamente in campo.
E’ in questo humus che è iniziato il sottile lavoro diplomatico del nostro, una lenta, e il più possibile sotto traccia, opera di destrutturazione del gioco, prima ancora di qualunque intervento più invasivo nella scelta dei suoi interpreti. Quello che – lo citiamo per la seconda volta in questo articolo – Federico Buffa ha definito efficacemente il “processo di Ibrazione”. Senza sconvolgere le gerarchie, è stato però chiesto non solo a Pirlo ma anche, più indietro, a Thiago Silva, di non far girare la palla ma di verticalizzare subito verso Ibrahimovic. Palla lunga, cioè, e Zlatan a pedalare, a fare la guerra, a cantare e a portare la croce. Così sono arrivati punti pesantissimi, si pensi – su tutti – all’1-0 (uno degli otto 1-0 di questa stagione) di Milan-Genoa. E subito i puristi a storcere il naso, Seedorf – improvvisamente relegato ai margini della manovra – a dirci che così non si va da nessuna parte, che non è da Milan, e Allegri a tessere pazientemente la tela. A dire una cosa – per tener buono, diciamo, per semplificare, l’ambiente, ma ci siamo capiti… – e a fare il contrario.
Quando poi è arrivato il tracollo di Madrid, il mister ha colto l’occasione col tempismo del miglior Inzaghi. Di fronte alla figuraccia in mondovisione di quello che non era altro se non il Milan dell’anno prima, ha chiesto l’intercessione di Galliani. Lo ha convinto che era necessario usare pesantemente il bisturi, fare scelte pesanti, impopolari, e difficili da far digerire a Berlusconi e ai senatori. Ha chiesto e ha ottenuto la protezione dell’Amministratore Delegato, ma sapeva benissimo anche lui che, se i risultati non fossero arrivati, anche Galliani avrebbe potuto ben poco. Da allora, mentre Ibra ci trascinava con i suoi gol e la sua leadership in campo, Allegri ha ridisegnato la squadra. Prima i tre mediani a Bari. Poi Ronaldinho in Brasile e al suo posto il suo esatto contrario, Kevin Prince Boateng. La panchina di Seedorf cui veniva preferito Merkel. La panchina di Pato per un giocatore di corsa e quantità come Robinho. Sono solo alcuni dei tanti snodi cruciali da cui è transitato questo scudetto, quasi passati in silenzio.
Mister Allegri ha rimesso in discussione i padri della patria senza per questo perdere il loro appoggio, che è tornato fondamentale nel finale di stagione senza Ibra, quando è stato necessario ricreare gioco con più qualità in mezzo al campo (Allegri ha scelto di farlo con Seedorf, partendo da sinistra e mantenendo saldi i bulloni davanti alla difesa con Van Bommel, proteggendo comunque con Boateng le incursioni di Clarence). Ha ottenuto il massimo anche da chi non ha mai giocato (si pensi, ad esempio, a Oddo e persino a Jankulovski, solo per citare i casi più clamorosi). Non ha mai perso il controllo dei nervi neppure nei momenti di maggior tensione e difficoltà. Ha sempre corretto tempestivamente sia gli errori della squadra che i suoi. Ha saputo adattarsi alle caratteristiche degli avversari e ai momenti di forma della squadra, cambiando mille Milan e riuscendo così a limitare i danni anche nei periodi in cui gli infortuni sono stati vari ed assortiti.
Ma soprattutto ha trasformato il Milan da squadra che avrebbe potuto essere competitiva solo con i ritmi e le cadenze del campionato brasiliano, a macchina da guerra strutturata fisicamente, di corsa e di lotta, perfetta per il campionato italiano. Il tutto con il pieno e incondizionato appoggio presidenziale, cui il mister è riuscito a far digerire anche le scelte più antitetiche rispetto al suo modo di concepire il calcio, ribadendo nelle dichiarazioni ma ripudiando nei fatti il dogma del possesso palla tanto caro a Berlusconi. Massimiliano Allegri ha, in sostanza, rivoltato il Milan come un calzino, ha preso una squadra e ne ha creato un’altra completamente diversa, in un contesto in cui questa operazione, per tantissimi fattori, era complicatissima. A suo modo, un eretico come Arrigo Sacchi.
L’anno prossimo lo attende la sfida dell’Europa. Dovrà rimodulare ancora una volta la squadra, aumentare i ritmi e la qualità del centrocampo senza intaccare la solidità difensiva. Accentrare meno il gioco offensivo su Ibrahimovic mantenendo intatta la leadership dello svedese. Mettere Alexandre Pato nelle condizioni migliori per esplodere finalmente ai livelli che gli competono, ma non assecondare l’istinto da solista che nel ragazzo resta preponderante. Queste sono solo alcune delle sfide che attendono il mister. L’asticella dell’ostacolo è quindi destinata inesorabilmente ad alzarsi. Il Dottor Allegri, laureatosi in Italia, dovrà provare a prendere la specializzazione in Europa. Noi siamo pronti a scommettere che ce la farà. Ma è presto per parlarne, oggi è ancora il tempo della festa, da sorseggiare fino all’ultima goccia. E dei ringraziamenti a chi, come il Gattopardo, ha cambiato tutto rispetto al Milan dell’ultimo scudetto, e lo ha fatto perché nulla cambiasse, sette anni dopo, nelle nostre piazze. Tornate a popolarsi di bandiere rossonere, e a risplendere, oggi come allora, con i colori più belli del mondo.
[Vittorio Panzardi – Fonte: www.ilveromilanista.it]
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