Sorprendiamoci, se ci pare. Ma se nelle coppe europee, in questa stagione, stiamo andando alla media di una massimo due vittorie ogni tornata di sette partite fra Champions ed Europa League, c’è poco da fare i basiti. Anche perché il nostro approccio al problema è dilettantesco. Non siamo abituati a vivere il calcio di Club come un fatto complessivo, come qualcosa di nostro, di italiano. Il calcio del Belpaese ama ciò che divide, non ciò che unisce: Mourinho docet.
A proposito, non si capisce mai di chi sia l’allenatore questo grande tecnico, a Madrid gioca la finale con l’Inter e lascia lo stadio sulla macchina del Real, a Milano siede sul pullman merengue e fa gesti a tre dita con cui si dispiace dei tre gol incassati la sera prima dall’Inter contro il Tottenham. Tutta questa confusione simboleggia un po’ lo stato d’animo del nostro calcio, ma è meglio non divagare. Il nostro problema è che nelle Coppe andiamo in ordine sparso, senza strategia e senza spirito unitario. Ed è un problema che accomuna le società e il pubblico.
Ci siamo dimenticati di tifare per le italiane in Europa nel corso degli anni e abbiamo preferito acquistare trespoli in quantità industriale. Sarà anche coreografia, sarà pure il minore dei mali, ma anche lo spirito con cui si vive il calcio viene percepito dai protagonisti e tradotto sul campo dai risultati. Siamo impegnati con le nostre squadre in tre gironi di Champions League e in quattro di Europa League. Bene, nessuna delle nostre sette squadre è al primo posto dopo quattro giornate. Tre sono seconde e quattro sono terze.
Per due delle seconde, Milan e Roma, le due top team del gruppo, rispettivamente Real Madrid e Bayern, sono ormai irraggiungibili. Per l’Inter non è così, per il semplice motivo che non ha nel proprio girone né un Real né un Bayern Monaco. Di cosa ci lamentiamo? I tanto criticati procuratori sportivi, che invece i fondali del calcio li esplorano in tempi non sospetti a stretto e reale contatto con i veri sentimenti dei calciatori, ce lo segnalano da tempo. Non siamo più una prima scelta. Sempre più spesso i professionisti che assistono i calciatori si sentono chiedere in giro per l’Europa e per il mondo: ma perché devo venire a giocare in Italia?
Non c’è gente allo stadio, gli stadi sono vecchi, le tasse sono alte, c’è sempre un gran casino…Non è disfattismo e probabilmente sbagliano. Perché poi chi lascia l’Italia, vedi Ibrahimovic, torna e chi non riesce a tornare, vedi Kakà e Shevchenko, se ne duole. Ma questa è la situazione e con questa dobbiamo fare i conti. Se vogliamo risalire e non leccarci le ferite, ogni sette maledette partite europee. Con questo pregresso e con questo carico di perplessità maturate nel corso della settimana europea, il campionato italiano è pronto a ripiegare su sé stesso. L’attenzione generale è su Lazio-Roma, e tutte le volte che, giustamente e meritatamente, la capolista fa parlare di sé il pensiero corre a quella quarta giornata di Campionato, stagione in corso.
Alla fine di Lazio-Milan 1-1, con la traversa colpita da Zambrotta ancora tremante, i giocatori molto ben allenati da Reja festeggiavano il pareggio casalingo con il Milan come fosse una vittoria con fior di abbracci a bordocampo. Contro un Milan che, dal canto suo, deve andare a Bari con le antenne dritte. Il Bari ha vinto una sola partita in casa: contro la Juventus, una grande. Molto dipenderà dalla coppia difensiva centrale, in tutte e tre le partite perse dal Milan in questa stagione (le stesse perse dall’Inter, peraltro) mancava sempre uno fra Nesta e Thiago Silva. In questo calcio che ha una fame insaziabile di mercato, questo è un pensiero che terrà banco nelle prossime settimane.
[Mauro Suma – Fonte: www.tuttomercatoweb.com]
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