“Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Con queste parole Lorenzo De Medici aveva definito l’imprevedibilità del futuro e con queste parole potremmo identificare il futuro del calcio italiano. Molto si è detto e molto si dirà sul ritorno del calcio italiano.
Gravina il numero uno della FIGC ha definito a chiare lettere il destino del calcio italiano se non si dovesse ritornare a giocare: “Se non si riprende a giocare il calcio è finito”. Una dichiarazione del genere potrebbe suscitare ilarità o un allarmismo esagerato, la frase di Gravina invece è realistica e al quanto veritiera.
Se consideriamo che già nelle Leghe minori non si crede più ad un ritorno al gioco, in quanto il passivo accumulato è già sufficiente per far chiudere più della metà delle aziende calcistiche di serie C e D, per la serie A e B la situazione che si sta maturando rischia di diventare catastrofica. Se consideriamo che l’indotto derivante dalle sponsorizzazioni, dai diritti TV e dai botteghini è imponente, la mancanza di questi introiti rischierebbero di mandare a casa una moltitudine di lavoratori che si vedrebbero rescissi i contratti.
Oltre a questo problema di carattere economico vi è un altro molto imponente, quello sanitario: se è vero che molto probabilmente ritorneremo a vedere una partita allo stadio forse a settembre l’aspetto più gravoso è quello di garantire la sicurezza sanitaria ai lavoratori del calcio ovvero giocatori, staff tecnico, staff amministrativo e gestionale.
Il presidente della FIGC in un incontro con la commissione medico scientifica federale è tornato su questo punto delicato. Per ritornare a giocare serve controllare la situazione clinica di tutti i lavoratori del calcio e per fare questo serve organizzare con metodo e rigore un numero elevato di tamponi, situazione abbastanza problematica nella quotidianità.
L’ultima problematica che sovviene è dove giocare. Assodato che le regioni del nord non possono assicurare le condizioni base per una riapertura degli impianti, Gravina punta di organizzare una sorta di mondiale; identificare quattro o cinque impianti in regioni dove il virus non ha attecchito e finire il campionato in queste condizioni.
Se a noi appare futile il solo discutere di calcio e del suo futuro quando ci sono persone che muoiono di coronavirus, la preoccupazione di vedere azzerate le casse di società di calcio, ricchi contribuenti che pagano ingenti tasse, diventa non solo un problema di carattere sociale ma anche un problema per lo Stato che si vedrebbe nell’impossibilità di incassare tasse ingenti.
La domanda che ci dobbiamo porre per riflettere sul ritorno del calcio non è “che ci importa del calcio?” ma è, ce lo possiamo permettere economicamente? È possibile etichettare come futile un indotto che guadagna 4,7 miliardi di euro di cui 1,2 miliardi di tasse con un impatto dell’1,7% del PIL? Oggi siamo chiamati tutti a fare la cosa giusta dal punto di vista sanitario ma anche di non perdere la connessione con la realtà.
A cura di Matteo Buzzurro