Esportare a livello internazionale il ruolo “maturo” di rappresentatività delle componenti tecniche dimostrate nel sistema calcistico italiano. Della prospettiva di allargare anche gli organismi direttivi di UEFA e FIFA alla presenza di calciatori, allenatori e dirigenti è stata lanciata dall’avvocato Umberto Calcagno, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori e vicepresidente della FIGC, nel corso di un “dialogo” avuto con Giuseppe Tambone – ds ed esperto di diritto ed economia dello sport – nell’ambito del Corso di Alta Formazione in Management delle Società Calcistiche dell’Università LUM, riconosciuto dalla FIGC per l’accesso diretto all’esame di abilitazione da direttore sportivo.
“Soprattutto nel contesto attuale di riorganizzazione del quadro delle competizioni – ha dichiarato Calcagno – la mancanza di questa forma di interlocuzione delle componenti tecniche con gli organismi internazionali credo sia un danno al sistema. Le figure tecniche e dirigenziali che sono parte determinante nella creazione di questo spettacolo e, soprattutto, quelle che vivono il sistema dal di dentro, devono poter avere voce. Rappresenterebbero un ulteriore salto di qualità. Vogliamo essere parte del sistema, vogliamo essere propositivi e non subire decisioni che, per quanto pur condivisibili talvolta, comunque non ci danno possibilità di offrire il nostro fattivo contributo di idee e di esperienza”.
La partecipazione alle attività del Corso per direttori sportivi della LUM ha visto l’avvocato Calcagno entrare nell’attualità della politica federale e delle imminenti future riforme.
“L’iniziativa della LUM – è stato il saluto del presidente AIC, che ha concesso il patrocinio all’iniziativa – rappresenta una nuova attività di completamento dei tanti canali di quella formazione che la FIGC porta avanti da sempre attraverso il Settore Tecnico, impegnato con la presidenza di Albertini ad incrementare il suo ruolo e l’attività di miglioramento del nostro patrimonio professionale. Il nostro è un mondo che cresce e si evolve di continuo e, a maggior ragione in questo momento di difficoltà, abbiamo bisogno di professionalità e probabilmente anche di figure nuove all’interno delle società, in grado di operare una riorganizzazione complessiva delle figure professionali. Il Corso della LUM si inserisce perfettamente all’interno di questo contesto ed il vostro impegno credo gioverà al sistema”.
“Il nostro mondo parla di riforme da un decennio. In questi anni abbiamo guardato solo al format dei campionati, dandone una chiave di lettura parziale. L’eventuale riduzione del numero delle squadre professionistiche deve essere il punto di caduta dei nostri ragionamenti e non il punto di partenza. Bisogna partire dalle regole. Alcune norme poste negli anni scorsi sono servite a stabilizzare il sistema, a migliorare la capacità dei club a restare nel sistema. Dobbiamo riprendere quel cammino. Innanzitutto occorre trovare un modello di redistribuzione delle risorse diverso dagli ultimi 10 anni: questo modello oltre a produrre tanti debiti ha anche fatto emergere un gap economico e disuguaglianze non più a lungo sostenibili, sia nel contesto internazionale evidenziate dal progetto della Superlega che, a breve, anche in quello nazionale. La riforma deve essere portata avanti in un’ottica di sistema da parte di tutte le componenti, noi non pensiamo di dover rinunciare a qualcosa ma di guardare con una prospettiva diversa dal passato. In questa ottica comune non vedo interessi contrapposti tra Aic e Leghe. Dobbiamo chiaramente capire quali siano le risorse aggiuntive per tutto il sistema per poter fare una riforma, quali le norme che l’accompagneranno. Sappiamo tutti che solo la parte apicale del nostro mondo può produrre certi tipi di risorse, ma è fondamentale comprendere che ridistribuirle in maniera equilibrata verso il basso è anche interesse di chi è al vertice. Sono concetti che ritornano anche in ambito internazionale”.
“Mi convince particolarmente l’idea di creare due ambiti agonistici di “élite” che sappiano fare da cuscinetto tra le attuali B, Pro e D. Essi consentono di preparare al meglio, senza stress e senza improvvisazioni, da un lato il cammino verso l’alto e dall’altro di gestire al meglio il percorso in discesa, che oggi rappresenta non solo un evento negativo dal punto di vista sportivo ma anche economico-finanziario a tal punto da metterne in pericolo la stessa continuità. Abbiamo necessità di raffreddare e stabilizzare il sistema. La riforma dei campionati è l’unica cosa su cui possiamo incidere. Pensare di redistribuire le medesime risorse di oggi ad un numero solo inferiore di squadre senza offrire una opportunità di crescita avrebbe un impatto molto breve e limitato. Anzi, i campionati più competitivi porteranno i club a spendere fisiologicamente di più ed a bruciare le risorse in più di cui beneficeranno. Dobbiamo agire diversamente, ovviamente mantenendo al centro il merito sportivo. Dobbiamo favorire l’equilibrio tra le varie categorie e, direi, anche quello al loro interno. Il criterio di distribuzione delle risorse nell’attuale Serie A è argomento da affrontare per favorire un equilibrio competitivo differente rispetto a quello vissuto negli ultimi anni. Dobbiamo rivedere l’impianto solidaristico, a maggior ragione rispetto ad altri sistemi economici perchè siamo un sistema sportivo e non dobbiamo creare o favorire forti disparità”.
“La pandemia ha messo a nudo alcune criticità e sconta da diverse stagioni un rapporto non equilibrato tra fatturato e perdite, entrambe in crescita parallela. In nostro mondo sa massimizzare i ricavi pur nelle difficoltà ma deve imparare ad amministrarsi meglio. Troppo semplice imputare le difficoltà al debito sportivo rappresentato dagli impegni salariali. Resta in media un 50% dei costi che vanno considerati e su cui bisogna incidere. Le società devono affrontare una diversa metodologia di analisi dei costi. Le norme di iscrizione di questa stagione e le agevolazioni delle normative statali, consentirà ai club una iscrizione più agevole ma non immetterà risorse nel sistema. Finita la fase emergenziale dovremo capire, attraverso le regole, chi potrà fare calcio in futuro”.
“Il direttore di un club oggi vive il mondo calcistico troppo “alla giornata” perché si è troppo legati al risultato del momento. Molto spesso l’obiettivo è massimizzare le opportunità del momento e ciò che ci offre il contesto in cui operiamo. Questa prospettiva va modificata. Ma va modificata partendo da una stabilizzazione dei programmi e dei progetti tecnico-sportive delle società: se i rapporti delle figure tecniche con i club non durano mediamente oltre una stagione, difficilmente si può ottenere un percorso a più lunga gittata, una programmazione che si sviluppi nel tempo. Una grande criticità del nostro sistema deriva dall’assoluta attenzione riservata alla massimizzazione del risultato del momento senza un respiro programmatico. Basti pensare che, pur in un momento di crisi, in questa stagione nella nostra Serie A i club hanno speso in termini di contratti più di quanto rilevato nel periodo ante-Covid. In Serie B hanno speso 30 milioni di euro in più, due gironi su tre della Lega Pro hanno accresciuto gli impegni”.
“Come AIC siamo interessati allo stato di salute dei club e del loro equilibrio gestionale. Non a caso le recenti norme vanno nella direzione di allargare i controlli sul budget delle società anche in Serie A, come già accadeva in B e Lega Pro. L’idea non è assolutamente quella di limitare gli investimenti ma di fare in modo che sia salvaguardato l’equilibrio competitivo e che nel caso di ipotesi di spesa oltre soglia, il sistema sia adeguatamente garantito. Il principio di parità competitiva deve essere centrale: non puoi spendere più di quello che puoi permetterti. Non è giusto chiedere le rinunce agli stipendi a fine stagione quando con quelle figure sportive hai centrato obiettivi sportivi. Il ragionamento va fatto a monte. Si tratta di un salto di qualità che dobbiamo fare insieme, per evitare di rincorrerci e litigare oppure di rincorrere situazioni negative che vengo ad emergere inevitabilmente a causa di impostazioni non equilibrate. Oggi più che mai è determinante la progettualità”.
“Con le società i calciatori hanno oggi un rapporto più maturo rispetto al passato. Le difficoltà hanno responsabilizzato tutti e nel percorso che ci attende credo che questa collaborazione va modulata in maniera differente. Abbiamo fatto la nostra parte non solo sul piano degli stipendi – non c’è calciatore che non abbia rinunciato ad una parte o ricontrattato i propri emolumenti – ma ora il vero scatto sta nel capire che parte fanno le altre… “parti”. Nel sistema dobbiamo tutti responsabilmente ragionare in un’ottica di sostenibilità in maniera stabile e condivisa, senza rincorrere le scadenze e le emergenze. Il rapporto tra calciatore e società deve diventare nella fase contrattuale un rapporto responsabile. Non mi piace l’idea del controllo dei budget dei club, ma se siamo arrivati a questo punto evidentemente qualche ottimo imprenditore fuori dal contesto calcistico si è perso nell’affrontare le tematiche microeconomiche nel calcio. Le parti devono agire con una “coscienza di sistema” nel concepire di non poter fare il classico passo più lungo della gamba. Flessibilità dei contratti? Già oggi è possibile gestire voci differenziate a seconda di contesti e risultati. La flessibilità c’è già ma in fase di contrattazione non viene utilizzata, poco le opzioni di variabilità ed ancor meno quelle per il cambio di categoria. Il messaggio lo diamo ai calciatori, affinchè comprendano il contesto in cui inseriscono, le potenzialità e le prospettive sportive. Devono essere bravi anche a scommettere in positivo sui club. Le parti possono, ed in qualche caso devono, prevedere importi tra le diverse categorie. Le parti devono porsi il problema. Cosa diversa è pretendere che siano AIC e Leghe a stabilire tetti e scostamenti”.
“Chi ha giocato sa bene quanto sia importante non depotenziale la “meritocrazia” nella conquista della presenza in campo. Non solo durante le partite ma anche e soprattutto durante la settimana, dove si attua la formazione. Il giovane calciatore che non conosce lo stimolo della lotta e della concorrenza con altro collega, specie se più grande, non ha un vero percorso di formazione. Ai miei tempi chi giocava due o tre stagioni da titolare pur essendo molto giovane aveva la consapevolezza di poter fare carriera. Oggi resta sempre il dubbio che le presenze non siano frutto della meritocrazia. Ieri il giovane bravo era più facilmente individuabile, oggi si fa più fatica. Mi piacerebbe tornare ad un sistema diverso, ma è pur vero che abbiamo norme come il decreto Melandri che individua il criterio della presenza dei giovani come distintivo per la distribuzione delle risorse. Oggi non abbiamo le presenze obbligatorie tra i professionisti e credo che abbiano poco senso anche in Serie D. Le statistiche di carriera di chi gioca tre campionati da titolare in Serie D sono mortificanti: si formano ragazzi che, usciti dall’obbligatorietà, continuano a giocare nelle categorie dilettantistiche più basse! Il sistema per noi va cambiato non per agevolare i calciatori più esperti ma per non creare aspettative di una carriera che oggettivamente non potrà esistere nei ragazzi che spesso sacrificano la scuola e lo studio. Sarebbe una forma di responsabilità verso di loro, non una battaglia da sindacato dell’AIC. Ce lo dicono le statistiche. Il focus è la valorizzazione dei nostri vivai nazionali. Così non si coltiva il talento. Giocare in D ed in Lega Pro per un ragazzo di 19 anni presuppone un livello elevato di preparazione, come può essere disponibile un numero così ampio di ragazzi in grado di soddisfare questi standard? In questo senso le Seconde Squadre sarebbero di grande aiuto al sistema”.
“Vi immaginate il titolo sportivo dell’Avellino spostato a Bari? Nel nostro sistema non ha senso una norma di questo tipo. Diversamente dalle procedure che la FIGC ha già adottato da anni e che servono a garantire la prosecuzione del percorso sportivo e a dare garanzia del mantenimento degli impegni, l’idea che ci si possa comprare la possibilità di disputare un campionato non mi piace. Sull’abolizione del vincolo sportivo la nostra posizione è chiara: se siamo rimasti insieme alla Grecia gli unici ad avere un istituto simile non è casuale. Va cambiata l’impostazione. Le società dilettantistiche consentono ai giovani di fare sport, il nostro tessuto è affidabile per questo compito. Si tratta di privati che, al di là dell’aspetto volontaristico, devono ottenere sostentamento da questo sistema. Il vincolo è diventata una modalità – illegittima – di creare risorse per sostenere queste attività. Aver rinviato i decreti a dopo il termine della legislatura significa averli condannati ad un destino di improduttività. Abbiamo però perso un’occasione per dare anche dignità ai lavoratori sportivi e, soprattutto, per professionalizzare il personale formativo che nello sport di base è determinante per la crescita dei ragazzi e l’emersione del talento. Affidiamo i nostri figli a questo contesto dilettantistico, non lo professionalizziamo e quando queste realtà si rivolgono al sistema del mercato per cercare i fondi, non andiamo a riconoscere loro la funzione sociale svolta per conto dello Stato ma le comprimiamo alla stregua del terzo settore, del volontariato puro. Professionalizzare il personale delle società dilettantistiche significa poter presentare il settore come un settore economico che produce benefici anche nell’ottica, come in questi momenti di difficoltà, del riconoscimento di questa funzione da parte dello Stato”.
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