ROMA – Siamo dipendenti dal tempo, le nostre vite connesse astronomicamente dal ticchettio inerme delle lancette invisibili. Siamo dipendenti dal caso e dal destino, rette parallele infuocate o, meglio, facce della stessa medaglia. Siamo dipendenti da un attimo, da quel singolo battito che cancella le circostanze, il confine spazio-tempo e la bulimica realtà piena di tutto: sbagli, errori, disincanti e rimpianti.
Siamo dipendenti dalle date, incastoniamo ricordi ruggenti all’interno di un numero curvo e fermo, imponente come un faro bagnato dalle onde del tempo, che premono incessantemente contro un muro di ricordi. Il 28 maggio 2017 è uno di quei momenti, una di quelle date ferme all’interno di un nucleo in continuo movimento. Il giorno in cui l’eternità di un luogo, il giorno in cui la mistica di una città intera si è fermata per applaudire e piangere, per innamorarsi ancora ammirando il numero 10. Tre anni fa lasciava il calcio Francesco Totti, nel modo più emozionante possibile, come se quel giorno fosse stato una pellicola degna del miglior regista strappalacrime.
E quante lacrime c’erano quel giorno, di tutte le età. Comprese le sue, di un bambino che si è cucito la maglia giallo-rossa addosso indossandola con orgoglio e fierezza fino ai 40 anni. Fino a quel tardo pomeriggio di maggio, assolato e caldo ma allo stesso gelido e distante dal caos di Roma. Perché tutta Roma, in quell’istante, era lì a rendere omaggio, era lì a urlare un “Grazie” e a immortalare un momento storico. Il 28 maggio 2017 l’ultima bandiera del nostro calcio veniva ammainata.
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