Un Giro sempre meno “italiano”

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Una considerazione sul momento attraversato dal ciclismo professionistico italiano, prendendo la sua competizione più importante come metro di valutazione

giro d'italia the route 2024Nell’articolo di commento al percorso del Giro d’Italia 2024, ci chiedevamo in chiusura quali saranno i protagonisti per la classifica generale, quanti e quali grandi nomi stranieri saranno al via della Corsa Rosa (quelli accreditati al momento sono Tadej Pogacar e Wout van Aert, che è un corridore eccezionale ma non da classifica generale). La presenza dello sloveno avrebbe due rovesci della medaglia, perché sarebbe da una parte un motivo di orgoglio per gli organizzatori e di lustro per la corsa, ma dall’altra rischierebbe di svuotare di interesse la lotta per la classifica generale, se non vi fosse qualcuno in grado di impensierirlo adeguatamente.

La soluzione alternativa sarebbe quella di avere una corsa equilibrata, con stranieri di ottimo calibro ma senza alcuno dei ciclisti al momento faro del del movimento internazionale e di richiamo per un pubblico non di stretti appassionati, un po’ come è stato nell’edizione del 2022, che ha visto sul podio nell’ordine l’australiano Hindley, l’ecuadoregno Carapaz e lo spagnolo Landa.

Un dato è comunque fuori discussione, e non sarebbe neppure la presenza di tutti i più forti ciclisti al mondo al Giro a cambiare questo stato di cose: il ciclismo professionistico in Italia, e con esso il Giro, che è la sua manifestazione più importante, non se la sono mai passata così male.

Sarebbe un discorso molto complesso da affrontare, ma è inoppugnabile come questo Paese, che è stato per tutto il ‘900 il cardine di questo sport radicato soprattutto nella vecchia Europa, assieme a Francia, Spagna, al Belgio e all’Olanda, abbia patito enormemente la globalizzazione del movimento ciclistico. Basti pensare che non vi è nessuna squadra italiana fra le 18 che compongono il World Tour, la serie A del ciclismo. Da quando esso è entrato in vigore, nel 2005, solo la licenza del World Tour garantisce ad una squadra il diritto di partecipare al calendario internazionale delle corse più importanti. Per le altre, c’è da sperare solo di essere ripescata fra le 4 o 5 wild card a disposizione degli organizzatori. Gli spazi per le squadre sostenute dagli sponsor più piccoli, di matrice nazionale, si sono ristretti, perché ci sono meno possibilità di partecipare agli eventi più importanti. Ma uno sponsor che non abbia la certezza di poter vedere la propria squadra al via almeno del Giro d’Italia, ci pensa due volte ed anche di più prima di finanziarla.

Questo ha fatto sì che il Giro d’Italia si internazionalizzasse ma che perdesse la sua anima più genuina e nazional-popolare, che consentiva a tutto il movimento italiano, ed in particolare ai corridori più forti, anche a quelli che magari non erano capaci poi di essere protagonisti al Tour de France o nelle classiche internazionali, di vivere in qualche modo di rendita tutto l’anno su quelle tre settimane di ottima visibilità che il Giro ha sempre garantito in Italia.

Senza andare ai tempi di Bartali e Coppi, ma pure a quelli di Gimondi, nei quali il ciclismo contendeva al calcio il posto di primo sport nazionale, anche nei decenni seguenti il Giro d’Italia costituiva sempre un momento di grande attrattiva anche per il pubblico generalista.

C’è un dato statistico che è assolutamente eloquente al proposito, quello degli italiani piazzatisi fra i primi 10 della classifica generale del Giro. La nostra ricerca si è spinta indietro fino al 1990, e da lì è ripartita per valutare quanto numericamente forte sia stata la presenza ai primi posti dei corridori di casa, al fine di cercare un indicatore che supportasse l’effettivo e indubbio calo di interesse del pubblico generalista italiano verso un evento che resta comunque storia dell’Italia contemporanea.

Di seguito i numeri: gli italiani nei primi 10 furono 4 nel 1990, 5 nel 1991 (i primi quattro posti tutti italiani) 5 nel 1992, 4 nel 1993 e nel 1994, 3 nel 1995, 4 nel 1996, 6 nel 1997 e nel 1998, 5 nel 1999 (i primi tre, con Pantani escluso quando aveva già stravinto la gara…) 6 nel 2000 (i primi quattro della generale), 5 nel 2001, 3 nel 2002, 6 nel 2003, 5 nel 2004, 6 nel 2005, 5 nel 2006, 7 nel 2007, 7 nel 2008, 5 nel 2009, 4 nel 2010, 2 nel 2011, 4 nel 2012 e nel 2013, 2 nel 2014 e nel 2015, uno nel 2016 (Nibali, l’ultima edizione vinta da un italiano) 3 nel 2017, 2 nel 2018, uno nel 2019, 2 nel 2020, uno nel 2021, 2 nel 2022, uno nel 2023.

Va rilevato inoltre che dal 1997 al 2007 il Giro è sempre stato vinto da corridori italiani.

Come si può notare, negli ultimi 10 anni solo una volta ci sono stati 3 italiani fra i migliori 10, ed è stato il picco positivo della statistica, laddove nel primo decennio del nuovo secolo erano stati 3 solo una volta, nel 2002, ma era stato il dato più basso registrato. E la stessa cosa vale per gli anni ’90, dove tale numero rappresentava il picco solitario negativo nel Giro del 1995.

E se si facesse un raffronto sul numero di tappe vinte complessivamente dagli italiani in ogni edizione, la tendenza emergerebbe ugualmente. Si nota come ancora nei primi anni dall’introduzione del World Tour, anche grazie alla presenza di squadre italiane come Liquigas e Lampre, il numero di italiani ai primi posti sia ancora consistente, e come esso invece sia crollato quando questi sponsor hanno lasciato.

Il più forte corridore italiano del momento, il monumentale Filippo Ganna, pluri iridato della pista, dove è anche campione olimpico, e della cronometro su strada, non è d’altronde un ciclista adatto alle grandi montagne e non gli si può chiedere di essere più forte di quanto già lo sia.

Intendiamoci, avere un Giro d’Italia con una partecipazione estera qualificata è sempre stato assolutamente auspicabile. Il Giro è stato vinto da molti fra i più forti corridori da fare a tappe non italiani. Il problema è costituito però dal fatto che un numero molto elevato di corridori stranieri al via di medio livello, del tutto sconosciuti al grande pubblico e militante in squadre straniere, finisce col togliere spazio vitale a corridori italiani che non sarebbero da meno, come potenziale, ma che avrebbero, in quanto italiani (e la stessa cosa vale per i francesi al Tour) delle motivazioni molto maggiori per essere protagonisti nella corsa più seguita dagli italiani, facendo così un favore tanto a se stessi quanto al loro sponsor, che vedrebbe ripagati i propri investimenti.

Il Giro è invece diventato un prodotto in tutto e per tutto figlio della globalizzazione, e basta seguire la storica trasmissione del Processo alla Tappa per rendersene conto. Al posto delle polemiche e delle emozioni raccolte, prevalentemente nel nostro idioma, a ridosso della conclusione della tappa, con protagonisti ciclisti inzuppati di sudore e giornalisti, c’è un momento dedicato alla interviste ai protagonisti, collegati da una specie di salotto virtuale, che pare di collegarsi con la navicella di Star Treck, e con l’ormai indispensabile intervento della voce del traduttore.

Il fatto che il Giro stia perdendo, a favore della Vuelta, il posto di grande corsa a tappe più competitiva dopo il Tour, ha a che fare anche con la sua perdita di identità, ed allo stato attuale, con la piega che le cose hanno preso, il ciclismo sembra avere in Italia più spazio come sport praticato che come movimento professionistico.

A cura di Fabio Alfonsetti